MARIA CRISTINA SERRA | «I ricordi sono come bolle di sapone che si liberano nell’aria; mi sento come una piccola regina a margine del Cinema, capace di raccontare storie minute di gente comune, che ci rivelano il segreto e l’incanto dell’esistenza». Questa riflessione di Agnès Varda racchiude il senso complesso e multiforme della sua opera: un’antologia lirica di film e documentari che hanno costellato sessant’anni di carriera, densi di utopia e sperimentazioni; un insieme di voli pindarici e fragilità rivelate, attraversate da concretezze e utopie narrative. A Roma la ricordano nella loro programmazione, i ragazzi del Cinema America. Il Festival di Chaumont-surLoire (Arte e Natura) l’ha celebrata con le sue ultime istallazioni. A Maggio, il Festival di Cannes le ha dedicato la sua locandina su fondo arancio: una foto della ventiseienne Agnés, in cima ad una scala, sul set del suo film d’esordio La Pointe Courte, un ritratto emblematico della personalità e dell’opera dell’enfant prodige della Nouvelle Vague (qui un’intervista alla regista in occasione del festival 2015 della Film Society of Lincoln Center).
Per lei, oltre che dalle storie umane, è dall’immagine che tutto nasce. È lo sguardo del fotografo, il suo lavoro di formazione, che fissa in sequenze di fotogrammi la concretezza della realtà, sublimandola in un misto di ricordi ed emozioni, in una fusione fra parole e immagini. Un viaggio immaginario interrotto da divagazioni, che imprimono un ritmo irregolare e armonioso, in una successione di rappresentazioni fra presente e passato, in un flusso inesauribile di possibilità. Lo spunto può essere una crisi di coppia (gli allora sconosciuti Philippe Noiret e Silvia Monfort) con una scena iniziale di opalescente B/N che ci introduce ai loro frammenti d’amore e ai rimpianti interiori, incastrandoli alla dura realtà sociale di un villaggio di pescatori (Point Corte), fra le asperità quotidiane e la volontà di sopravvivenza. Fin da subito è chiaro ad Agnès che l’arte non è limitazione di linguaggi, ma composizione alfabetica, senza gerarchie, libertà di sviluppare un’idea di partenza, strada facendo. Che sia Parigi, la provincia francese, Cuba, la Cina o l’America a far da sfondo, sono le cose più insolite che attirano la sua immaginazione: come le patate a forma di cuore, scoperte nel mucchio di quelle accatastate per la realizzazione di Les Glaneurs et La Glaneuse, e poi ricomposte per esporle nel 2003 alla Biennale di Venezia.
«La mia arte non è concettuale, è grafica, scultorea: parto da piccole fantasticherie e poi mescolo vero e falso. Sono una persona curiosa di tutto», raccontava di sé Agnès; «amo conservare ciò che vedo quando parto per un viaggio, per poi riaprire dopo molto tempo la scatola dei ricordi». Solo dopo cinquant’anni, i reperti sigillati nel tempo del suo viaggio in Cina tornarono alla luce, in occasione di una mostra dedicata al periodo precedente alla Rivoluzione culturale. «Sono un’autrice libera e indipendente, ho sempre desiderato essere più amata che celebrata. Curiosa e modesta» Così spiegò la sua idea di cinema, presentando a Berlino il suo lungometraggio Varda by Agnès lo scorso febbraio: «I miei film non sono mai stati politici, ma sempre rivolti alla cura delle persone. Sempre dalla parte dei lavoratori, delle donne, dei più deboli». Se Cleo dalle 5 alle 7 le conferì la popolarità nel ’62, fu Senza tetto né legge, nel ’58, a rendercela contemporanea.
Con una straordinaria, struggente Sandrine Bonnaire, interprete di ragazza bordeline, decisa alla sua autodistruzione, in cerca di una libertà assoluta e impossibile, che la condurrà alla morte fra brulli paesaggi invernali di una campagna abitata da povera gente; un vagabondare attraverso un racconto essenziale, crudo, privo di drammatizzazione, oggettivamente distaccato, quasi a conferire dignità a Mona, ventenne con l’anima bruciata dalla disperazione. È la Montparnasse di sempre, dove lei viveva, lo scenario di Cleo, giovane cantante che fa i conti con la sua interiorità nell’attesa di un responso medico decisivo per la sua vita. Un alternarsi di lirismo e realismo, scandito da una colonna sonora che fa da fil-rouge all’intimità di una donna sola con se stessa. Agnès giocava con le inquadrature, i fuori campo e i montaggi; con la spregiudicatezza di chi, pur rispettando il rigore stilistico della creatività, amava essere sempre politically incorrect, audace anche a novant’anni. Il suo sodalizio con l’artista foto-graffittaro JR, ne è testimonianza. Nel 20017 hanno girato Visages Villas, battendo i villaggi nel Nord della Francia, fondendo le loro immaginazioni e azioni in perfetta empatia.
«Volevamo capire come sono cambiate le relazioni fra le persone, al tempo dei social, portare un po’ di amicizia e di follia, rendere l’effimero una presa di coscienza, una condivisione di vita e un mosaico di sentimenti». Conferire volti e voci a chi non ne ha.
Sotto l’apparente audacia di questa straordinaria donna si celava in verità un’anima candida, seppur sempre pronta alle sfide: «Sono una persona dispettosa, non amo il politically correct e in un lavoro così difficile nulla va lasciato al caso. Sono io a decidere i fuori campo, le inquadrature a mettermi nel ruolo dello spettatore a conciliare il rigore stilistico con le emozioni, a non risparmierei l’ironia, anche in momenti tragici, a giocare con il montaggio, senza un’idea statica del mio lavoro».
Tutta la sua opera è centrata sull’amore per le persone, per la disgressione, per la libertà assoluta, nel rispetto formale ed estetico della creatività.