ILENA AMBROSIO | E vissero tutti felici e contenti. L’epilogo topico delle favole, che dissolve magicamente tutto il brutto e il cattivo, lo conosciamo bene. Vade retro chi voglia privare l’infanzia della spensieratezza di una favola, ma che la vita non sia fatta di arcobaleni e unicorni è una realtà che anche i più piccoli devono, in giusta misura, provare ad affrontare. Proprio questo intento accomuna due lavori, pur differenti, visti durante il Puglia Showcase Kids, rassegna di teatro ragazzi ospitata dal Napoli Teatro Festival 2019.

Molti pensano che «le storie per bambini  devono essere delicate, dolci, zuccherose, senza paura, no problema. Mi dispiace ma non è così. I bambini non sono cretini, hanno tutto il diritto di conoscere la verità». Salda convinzione del buffo personaggio che fa da narratore in Biancaneve, la vera storia di CREST, scritto e diretto da Michelangelo Campanale. «Il signor Valt Disney è stato bravo, molto bravo, ma non ha detto la verità» continua con un marcato e simpaticissimo accento tedesco – davvero coinvolgente Luigi Tagliente. E infatti la storia cui assisteremo recupera l’ambientazione originaria: 1777, nella fredda Sassonia.

I fratelli Grimm scrissero sette versioni di Biancaneve e i sette nani. Quella più nota è l’ultima, del 1857, alquanto differente dalla prima del 1812, in particolare per un aspetto: a invidiare Biancaneve per la sua bellezza e a desiderarne la morte non è una cattiva matrigna, bensì proprio sua madre. Già i due linguisti dunque, provvidero a edulcorare gli aspetti più macabri del folklore tedesco.
Campanale invece – in un intento filologico che accomuna questo lavoro al suo Cappuccetto Rosso – ritorna all’origine e recupera, anzi, mette al centro del suo lavoro proprio il macabro “dettaglio”. E lo fa tramite quel narratore che, ritagliandosi il suo angoletto alla sinistra del proscenio, ci riporta niente meno che la testimonianza dei suoi amici sette nani.

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La vicenda si dispiega, così, come rimbalzando, tra le parole del narratore e le immagini tipiche della regia di Campanale. Un caleidoscopico disegno luci, quasi psicologico nell’isolare e illuminare le espressioni e i gesti dei personaggi, modula una scena continuamente in divenire grazie alle trasformazioni del tavolo centrale che fa da elemento cardine: prima tavolo da pranzo del palazzo, significativamente lungo nel separare madre e figlia, poi casetta dei sette nani; poi la bara di Biancaneve; infine, ruotato dagli attori, passerella della novella sposa e “altare” per la morte della regina. Una esplosione visiva in cui un ruolo fondamentale giocano gli splendidi e curatissimi costumi realizzati da Maria Pascale (anche nei panni della regina).

Insomma, a vederlo, un vero libro di favole. E tuttavia l’ossessione per la propria immagine e il (non) rapporto tra madre e figlia sono i veri fulcri della drammaturgia come pure del gesto e della stessa scena. La fila di piccoli specchi tondi disposti sul proscenio rifrangenti le luci, il tavolo che fa sovente da palco per le apparizioni della regina; e poi le interazioni tra le due che si concretizzano, viene da dire, a distanza, tramite pose e sequenze gestuali evocative, come mimate, e fortemente “teatrali”.

«Ma non è che questa storia è un po’ troppo noir?» chiede Biancaneve – una bellissima e piacevolmente svampita Catia Caramia – al narratore. La principessa, infatti, come a voler uscire da quella sua storia, incontra il personaggio esterno – si scontrano, per la verità, in divertenti frangenti metateatrali –  ed è come se si confrontasse con la realtà, la propria ma anche quella del mondo: «Perché, si muore?», «Perché, si fa la guerra?», «Perché, anche i bambini muoiono?».

E allora la verità svelata – poetico ma anche semanticamente pregnante l’espediente scenico dei veli  – non è solo quella filologica, la versione originaria della favola, ma anche una verità antropologica, che ingloba la possibilità del male e della malvagità, della cattiveria persino da parte di una madre. Che contempla, aspetto forse ancor più attuale,  l’ossessione per la bellezza: sulle note finali di Sei bellissima, la regina, illuminata dalla luce riflessa degli specchi, si toglie la parrucca, si sbava il rossetto e cade, uccisa dalle scarpe avvelenate preparate per lei durante il matrimonio della figlia – altro elemento poco conosciuto della storia; ma dietro sopraggiunge Biancaneve, già in posa, pronta ad ammirarsi. E chissà che madre sarà lei…

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Ai bambini viene detta, spiegata con chiarezza questa verità, la cui crudezza si diluisce però nel ritmo incalzante e brioso della recitazione, nel fascino della scena, nella dolcezza di quel “generale della verità” che, alla fine, abbiamo scoperto essere il tenero Cucciolo. 

Poetica e romanticamente vintage, invece, la storia raccontata da Senza Piume Teatro in Ahia!, una produzione Teatri di Bari. Nel posto dal quale si nasce c’è un piccolo inconveniente: un’anima si rifiuta di venire al mondo. Tutti fanno la fila per affacciarsi alla vita, balene, elefanti, e lei, invece, no. Si è piantata lì e non vuole saperne di muoversi.

Siamo in un Ufficio Nascite a metà tra un dormitorio – a destra un velino sul quale è proiettata l’immagine di una fila di letti –  e una stazione. Al centro un letto dal quale si alzerà la nostra anima ribelle e, dietro, una finestra da cui si affaccerà l’impiegato dell’ufficio che, continuamente in contatto telefonico con il Direttore, le sta tentando tutte per uscire dall’empasse. La prima (Maria Contini) è tutt’altro che una giovincella – deve essere parcheggiata lì davvero da taaanto tempo –, l’altro è un simpatico topo pupazzo realizzato e manovrato a vista da Raffaele Scarimboli.

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Foto Punes

Il nocciolo della questione è questo: l’anima non vuole nascere perché sa bene che, dal primo pianto in poi, non ci sarà altro che una serie infinita di ahia, di fastidi e dolori. «Gli ahia non mi piacciono. Io non nasco!». L’impiegato e il Direttore ricorrono ai più svariati espedienti per convincerla: fanfare di buon compleanno, quiz a premi, immaginari pubblici acclamanti che aspettano solo lei, comizi di sindaci ansiosi di accoglierla nel proprio paese. Momenti spiritosi e divertenti nei quali il pupazzo di Scarimboli entusiasma e coinvolge il pubblico con ilarità e, al tempo stesso, una certa dose di tenerezza, instaurando con l’attrice una sintonia assolutamente credibile e godibile nella sua leggerezza.

Si procede, così, per tentativi, finché l’impiegato, a corto di idee, pur di chiudere la pratica, promette all’anima una vita senza ahia. La immaginano, lei la descrive nei dettagli interpretando i segnali che provengono dal libro dei ricordi futuri (quello destinato a ogni nascituro):  il rumore di esplosioni sono, nella sua vita ideale, fuochi di artificio per la sua nascita; quello di una nave, la partenza per una tournée da star in America; quello di un aereo il segnale che il padre sarà l’inventore del primo aeroplano e viaggerà contando le nuvole. Leggiadra e di una spontaneità disarmante, la Contini sembra vedere – e farci vedere – con gli occhi di una bambina; il suo essere adulta sparisce: abbiamo di fronte l’essenza della fanciullezza, fatta di pura ingenuità ma anche della più istintualità paura dell’ignoto.

Ma è proprio l’ignoto che bisogna affrontare nascendo. L’arrivo del Direttore in persona – lo stesso Scarimboli che si sdoppia dal suo pupazzo – costringe l’impiegato a dire la verità e a mostrare il vero libro dei ricordi futuri alla piccola anima.
«Quando nascerò ci sarà la guerra…». La storia che scopre è molto diversa da quella immaginata; uno a uno i dettagli di quell’esistenza da favola acquistano nuovo senso: le esplosioni saranno quelle della guerra, l’assenza di notizie sulla madre sarò motivata dalla sua morte, una nave la prenderà per fuggire. Sulle note meravigliosamente malinconiche di True dei Rival Sons si succedono sul velino le immagini di vecchie foto in bianco e nero: visi di persone vere, di persone giunte alla vita, che ne hanno attraversato i dolori, superato gli ostacoli, ma che ne hanno anche ricevuto la gioia, le sorprese, la forza della resilienza. Su quello sfondo l’anima leggiadra si veste per il viaggio, lo fa danzando, gaia per ciò che l’aspetta: non ha più paura, ha scoperto che la vita sarà proprio come la voleva.

Raccontare la verità, anche quella difficile e scomoda. Lo fanno entrambi questi due lavori, eppure entrambi ci lasciano pieni di gratitudine: Biancaneve, compensando l’amarezza con l’energia entusiasmante del racconto e dei suoi interpreti, con la bellezza prorompente di una scena che esplode di accesa visività; Ahia! controbilanciando il conto dell’inevitabilità del dolore con la scoperta – svelata a poco a poco, in un mix equilibratissimo di comicità, levità e saudade – della bellezza inaspettata e astuta della vita.

 

BIANCANEVE, LA VERA STORIA

scene luci testo e regia Michelangelo Campanale
con Catia Caramia, Maria Pascale, Luigi Tagliente
costumi Maria Pascale
assistente alla regia Serena Tondo
assistente di produzione Sandra Novellino
tecnici di scena Walter Mirabile e Roberto Cupertino
produzione Crest

AHIA!

di Damiano Nirchio
regia Damiano Nirchio
con Raffaele Scarimboli, Monica Contini
assistente alla drammaturgia e regia Anna Maria De Giorgio
suoni e luci Carlo Quartararo
csene Bruno Soriato
costumi Cristina Bari
pupazzi Raffaele Scarimboli
cura del movimento Anna Moscatelli
video editing e grafica Punes
progetto Senza Piume Teatro
produzione Teatri Di Bari