ELENA ZETA GRIMALDI |Ibridazione, contaminazione, meticciato, la «dissomiglianza come virtù»: sono queste le parole d’ordine su cui Turi Zinna costruisce la sua ricerca, e anche su cui ha fondato l’eterogenea compagnia Retablo. Lo spettacolo Il muro, presentato in una nuova versione nel cartellone di Porte aperte Unict presso il Monastero dei Benedettini di Catania, ci parla di un muro che divide (anticipatore di uno dei tanti − troppi − tristi muri che oggi sentiamo propagandare), mentre c’impasta nel cemento di un muro multimediale e multifocale che unisce storytelling e visual design, pubblico e performer, ricerca artistica e rivalutazione territoriale.
La «technonovella» è uno spin off di La ballata di San Berillo, spettacolo itinerante per le strade dell’antico quartiere a luci rosse del capoluogo etneo che presentava agli esploratori i malvisti esemplari della sua fauna urbana, e che ha segnato l’inizio della collaborazione con Tramediquartiere, un’associazione di operatori sociali e culturali che promuove la partecipazione attiva degli abitanti ai processi del territorio. Per festeggiare i suoi trent’anni di attività, lo scorso marzo Retablo ha presentato Il muro nella sede principale dell’associazione, nel cuore del quartiere di San Berillo, agognata Itaca del protagonista della piccola odissea che lo spettacolo dispiega, il barbiere Gioacchino.
Ultimo dei tanti personaggi che l’attore catanese ha sviluppato dal piccolo affollato mondo de La ballata, il barbiere Gioacchino è il prototipo dell’emarginato, adattatosi a essere un disadattato, vittima della civile apartheid della classe borghese, la cui vicenda dà vita a un’altra tappa della sperimentazione (che Zinna conduce insieme a Giancarlo Trimarchi, autore della partitura sonora, e Fabio Grasso) tra live set elettronico e prosodia: un «quadro drammaturgico sonoro» i cui pennelli sono tanto le parole, quanto suoni, corpi e visioni.
Il pubblico è affossato nell’enorme giardino del chiostro di ponente del Monastero, circondato e sormontato dai portici. Tra le chiacchiere e i saluti, quasi non ci si accorge che in sottofondo cominciano a rimbalzare da una balconata all’altra le parole della canzonetta di propaganda fascista Me ne frego, fino a che, di colpo, le luci si spengono e veniamo investiti da un tornado sonoro che ci avvolge interamente.
Turi Zinna appare in alto, affacciato alla balconata, in piedi tra i controller e il microfono, incorniciato da due schermi di strisce tirate tra le colonne di marmo, una superficie non contigua su cui vengono proiettati (a cura di mamasONica.org) stralci di cinema astratto delle avanguardie e di documentari dell’Istituto Luce, dando allo spettacolo non tanto un apporto drammaturgico quanto un ambiente luminoso che funge da atmosfera e da scenografia. Tutti i nostri sensi vengono impegnati, catturati e accentrati, immergendoci in una realtà totalizzante, tanto virtuale quanto matericamente presente, fluido visivo e sonoro in cui sprofondare la platea.
La morfologia dello spettacolo ibrida i tratti del racconto e della canzone: la storia è divisa in pezzi che assomigliano più ai brani di un album che ai capitoli di un libro.
Alla parola è affidata la sintassi della narrazione, la strana vicenda del barbiere il quale, durante la visita del duce a Catania nell’agosto del 1937, viene scambiato per il panettiere e quindi, accusato di essersi rifiutato di esporre la bandiera fascista, condotto in centrale, picchiato, e costretto infine a ingurgitare mezzo litro di olio di ricino. Il piccolo barbiere ringrazia e si scusa, si scusa e ringrazia gli agenti che l’hanno martoriato: non può permettersi di lasciar andare ciò che ha dentro, neanche ci pensa a liberarsi, tanto è abituato a subire, a trattenere, a rispettare.
Al suono è invece affidata la semantica del discorso: finalmente libero, il povero Gioacchino ha lo stomaco tutto in subbuglio, e attraverso la voce deformata, gutturale, ridondante del performer ci sembra di sentir parlare lo stomaco stesso, tumefatto, accartocciato, ribollente di olio e feci.
A seconda dell’esigenza, in alcuni momenti è la narrazione a prendere il sopravvento, a raccontarci che Gioacchino non riesce a tornare a casa, a San Berillo, a causa delle altissime palizzate messe a chiusura delle strade «per impedire allo sguardo del duce lo spettacolo della miseria che offrivano i quartieri poveri», ed è quindi costretto a vagare alla ricerca di un bagno nella zona bene della città, sempre rispettoso, sempre trattenuto, sempre scusandosi e sempre ringraziando. Quando le parole non bastano, Zinna le manipola e contorce, le mixa con la partitura elettronica fino a disintegrarle, affidando tutto il significato dell’azione alla fonetica, al ritmo, al modo in cui i suoni si scontrano, si amalgamano o si mutilano tra loro: frasi spezzate e ripetute, riverberi, suoni acuti, improvvisi cambi di volume ci raccontano la reazione dei presenti quando Gioacchino, non riuscendo più a trattenersi, finisce per defecare davanti al bar più esclusivo di Catania.
Questa dittatura di sensi, che pretende con la forza l’abbandono totale e non sempre autocontrollato a una valanga di stimoli, può intimidire: il gioco non si deve tanto “capire” quanto “accettare”. Qualcuno ci si tuffa, qualcun altro ci mette più tempo; c’è chi nuota un po’ sì e un po’ no; ma quando ci lasciamo trascinare, ci accorgiamo delle infinite forme che questa «realtà aumentata» assume: pezzi della vicenda, personificazione di oggetti e stati d’animo, percezione della realtà falsata dall’emozione, tutte le scene di questa scrittura cinematografica sono perfettamente distinguibili.
La cronachetta drammatronica messa in scena da Turi Zinna assomiglia a una contemporanea fiaba sonora, ci avvolge in un involucro percettivo e immaginativo totalizzante, la cui immersività si fonda su loop ossessivi di suoni elettronici e parole. Come i ritmi tribali della comunità dei rave quasi ci ipnotizza, come la dittatura accentra ogni attenzione su di sé e poi, improvvisamente com’è cominciata, improvvisamente finisce; e noi, impreparati, ripiombiamo nel silenzio del chiostro, un silenzio che non è mai sembrato così assordante.
IL MURO
cronachetta drammatronica di una civile apartheid
parole, partitura vocale, esecuzione laptop e interpretazione Turi Zinna
partitura sonora Giancarlo Trimarchi
stage and video design mammasONica.org
allestimento di scena Salvo Pappalardo
direzione tecnica Aldo Ciulla
segreteria organizzativa Andrea A. Maccarrone
comunicazione e stampa Vincenza Di Vita
regia Federico Magnano San Lio
produzione Retablo
Monastero dei Benedettini, Catania
Porte aperte Unict
21 luglio 2019
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