ILENA AMBROSIO | Sopravvivenza o, meglio, resistenza. Questo il mantra della V edizione del festival I Teatri della Cupa che, non a caso, ha scelto come claim Apulian survival kit. Resistenza «a dispetto di una burocrazia scoraggiante e di una crisi generale del mondo teatrale», resistenza contro «visioni politiche poco lungimiranti che continuano a minare le basi culturali del nostro Paese». Dimostrazione di esserci, dunque, di voler esserci e voler fare. Fare cosa? Teatro, certo, arte, ma tramite teatro e arte fare comunità, reclutare militanti – che siano artisti, operatori ma pubblico soprattutto –  che lottino, insieme, per questa sopravvivenza.
A guidare l’esercito i gruppi di Factory Compagnia Transadriatica e Principio Attivo Teatro che, per il quinto anno, aggregano le comunità di Novoli, Trepuzzi e Campi Salentina (con una tappa nella splendida Abbazia di Santa Mari di Cerrate) intorno a una programmazione artistica – curata da Tonio De Nitto e Raffaella Romano – dedicata in gran parte alla Puglia ma che apre anche le porte a lavori dal respiro nazionale e contemporaneo.

Uno spazio, quest’ultimo, occupato nella V edizione da drammaturgie accomunate in qualche modo dal racconto di un malessere, di un disagio, declinato, tuttavia, in linguaggi e strutture sceniche nettamente differenti.

Uno e trino il personaggio disegnato Mario Perrotta in In nome del padre. Un’esplorazione dell figura paterna, condotta con la consulenza psicanalitica di Massimo Recalcati, prima parte di una trilogia familiare che proseguirà con Della Madre (in debutto a gennaio 2020) e un lavoro sul ruolo del figlio.
Uno e trino, dicevamo: nel corpo di Perrotta prendono forma tre personaggi, più precisamente tre tipi di padre, differenti per estrazione sociale, provenienza geografica, psicologia, accomunati dal vivere nello stesso condominio e dal rapportarsi, problematicamente, è ovvio, con i propri figli.
1. Un giornalista, colto e borghese, siciliano.  Pignolo, vanesio e logorroico – impossibile non pensare al Furio di Verdone. Il suo “problema” è Virgilio, novello Hikikimori per ragioni sconosciute, che l’uomo, piantatosi alla porta della sua stanza, cerca a tutti i costi di indagare con lucida e distaccata razionalità, nonché con la più aperta – e asfissiante – disponibilità al dialogo. Sarà bullismo? Ansia da prestazione per le pressioni dei genitori? Omosessualità? A nulla varranno i tentativi di dialogo. Solo cedere, piegandosi in lacrime, implorando con il cuore – e non con l’autorità del suo ruolo – smuoverà il figlio.

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Foto Luigi Burroni

2. Un operaio, veneto, sempliciotto. Lo troviamo in seduta psicanalitica per risolvere il rapporto con il figlio Alessandro. Il ragazzo non gli parla, non ha di lui, ignorante e incolto, alcuna stima. Agli antipodi del giornalista questo tipo è un grumo di insicurezze, complessi di inferiorità, inabilità; rimpianti per una passione, la musica, abbandonata per permettere a quel figlio di studiare. Proprio la condivisione della musica li avvicinerà, scioglierà il nodo che bloccava il loro rapporto: «Io non posso farti da padre, papà!».
3. Un commerciante, napoletano. Volgare arricchito, fissato con i tarocchi e con gli anglicismi. La figlia Giada è per lui compagna di uscite in discoteca, di sbronze e fumate di canne; una ragazza quasi donna cui guarda con una certa morbosità, lusingandola, ostentandola in pubblico. Un entusiasmo adolescenziale che, vestito da un adulto, si carica di riprovevole – seppur inconsapevole – ambiguità. «Le mie amiche hanno paura che tu le flerti… anche io ho paura» confessa la figlia. Sarà scioccante sentirselo dire, ma non abbastanza devastante da impedirgli di provarci, subito dopo, con la chiromante.

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Foto Luigi Burroni

Perrotta si muove tra le tre figure senza soluzione di continuità – solo il cambio di giacca segna il confine tra l’una e l’altra – stando abilmente in equilibrio tra istrionismo e, mi viene da dire, una “schizofrenia interpretativa”. A definirle – come di consueto nel teatro “linguistico” di Perrotta – la parlata, la cadenza regionale o più marcatamente dialettale, ma anche la gestualità, le posture: composto e trattenuto il primo, incerto il secondo, esagerato e iperattivo l’ultimo. Perrotta presta con abilità il proprio corpo e la propria voce a una continua metamorfosi di toni e tinte emotive, restando sempre credibile nel trovare la giusta intensità per ciascuna, pur in una generale eccentricità dei personaggi. Eccessivi e marcati, infatti, questi profili psicologici – archetipi con un proprio corrispettivo materico nelle tre sculture in metallo che abitano la scena insieme all’interprete – trovano proprio nella caricatura una definizione netta e precisa, che permette, d’altro canto, di scansare l’alto rischio di banalizzazione correlato a certe tematiche. Al netto di alcuni indugi in verbosità che forse appesantiscono, verso il finale, l’equilibrio drammaturgico, di certo In nome del padre opera uno scandaglio analitico ma insieme commovente delle dinamiche relazionali che legano padri e figli.

Non altrettanto convincente ci è sembrato Il problema di Paola Fresa, storia di una famiglia sconvolta dal sopraggiungere di una malattia che non lascia scampo: l’Alzheimer. Il lento degenerare del morbo (il padre, Franco Ferrante, ne è la vittima), la memoria sempre più evanescente, l’involontaria aggressività verso la moglie (Nunzia Antonino), la disperazione di quest’ultima e della figlia (la stessa Fresa): tutto è inserito in un impianto narrativo che, in sostanza, dice troppo, indugiando in dettagli prevedibili e patetismi i quali appiattiscono l’emotività più che muoverla a compassione. Una drammaturgia di base che, d’altro canto, stride con un’altra serie di elementi narrativi ed espedienti scenici che parrebbero puntare a un qualche straniamento dello spettatore o ad aperture metateatrli, ma dei quali si fatica a cogliere la coerenza e la pertinenza. Il continuo mutare delle luci sulla struttura cubica centrale (la quale, del resto, avrebbe potuto essere simbolo dell’isolamento del malato ma che viene abitata indistintamente da tutti i personaggi); la posizione di narratore/presentatore al microfono di Michele Cipriani – già interprete tra l’altro di più ruoli –; le “didascalie” da lui annunciate a inizio di ciascuna sequenza narrativa; il monologo/invettiva dell’impiegato dell’INPS contro il buonismo, contro noi che lo critichiamo per la sua freddezza e indifferenza al dolore.

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Il problema è senza dubbio un lavoro sentito, onesto nelle intenzioni ma al quale mancano organicità e definizione nelle scelte registiche e che, soprattutto, non ci pare aver trovato la chiave giusta per affrontare un dramma come quello dell’Alzheimer. La sofferenza – quella vera, devastante – insomma, se messa in scena così com’è,rischia di arrivare solo come un’imitazione di quella reale.

Un bel mazzo di chiavi, invece, ci viene offerto da La Vecchia, seconda parte della Trilogia del tavolino di Rita Frongia. Chiavi di lettura che fanno, un un certo senso, persino da nucleo tematico: siamo nella stanza, al tavolino, più precisamente, di un uomo che legge i tarocchi.

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Non c’è una reale vicenda da descrivere. In un lasso di tempo indefinito, i cui salti sono scanditi da istanti di buio, si susseguono gli incontri tra un mago (Stefano Vercelli) e un poeta (Marco Manchisi) afflitto da un malessere che non sa spiegarsi, un «dolore ligneo» che gli avvinghia l’animo. La lettura dei tarocchi – mirabilmente improvvisata sulla combinazione di volta in volta casuale delle carte realizzate dallo stesso Vercelli – dovrebbe aiutarlo a capire, a scovare nel suo presente, nei suoi sogni, nel suo futuro. Confessioni, ironia noir, momenti di genuina ilarità – su tutti l’improbabile rituale del palo santo – delineano a poco a poco il rapporto tra i due uomini che condividono il cibo – elemento reiterato fino alla dettagliata e “troisiana” descrizione della cottura dell’uovo sodo – e quindi la quotidianità di una vita che tiene a ogni istante nella manica quella carta, il 13, la Vecchia. La morte. Scoprire di averla a un passo è, per il poeta, la svolta verso la guarigione. Ma è in questo ultimo incontro che ci si apre la porta: nel viso improvvisamente malinconico del mago, di quel «maestro» fino a ora simile a una maschera romanesca del Belli, realizziamo che nel mentre di un racconto fatto, apparentemente, di nulla, si è creato qualcosa, una vera relazione umana. «Che faccio mo? – si chiede il mago oramai solo – Io nun ve capisco, carte! Che devo fa?».

In un interno eccezionalmente mosso dal vento, che gli conferisce un ulteriore alone di mistica indefinitezza – siamo all’aperto, nel Giardino Casa Prato di Campi Salentina –, Manchisi e Vercelli sanno dare forma a due personaggi fatti di levità mista a malinconia, di una comicità semplice e schietta e, al contempo, di una tragicità priva di qualsiasi patetismo. Due persone, in definitiva, poste, come noi, come tutti, di fronte all’illeggibilità  – altro che tarocchi! – della vita. E della morte.

 

IN NOME DEL PADRE

uno spettacolo di e con Mario Perrotta
consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
produzione Teatro Stabile di Bolzano
collaborazione alla regia Paola Roscioli
aiuto regia Donatella Allegro
costumi Sabrina Beretta
musiche Giuseppe Bonomo, Mario Perrotta
allestimento tecnico Emanuele Roma, Giacomo Gibertoni
foto Luigi Burroni
progetto grafico Fabio Gamberini
organizzazione Permàr
in collaborazione con DUEL

IL PROBLEMA

di Paola Fresa
con Nunzia Antonino, Michele Cipriani, Franco Ferrante, Paola Fresa
collaborazione alla creazione collettiva Christian Di Domenico
scene e costumi Federica Parolini
luci Paolo Casati
tecnico luci Maurizio Coroni
costruzione scene Luigi Di Giorno, Davide Maltinti
video e foto di scena Andrea Bastogi
illustrazione Francesco Chiacchio
Fondazione Sipario Toscana Onlus/ Erretiteatro30

LA VECCHIA

di Rita Frongia
regia Rita Frongia
con Marco Manchisi e Stefano Vercelli