GIORGIO FRANCHI | Del tempo che impiego a scrivere un articolo per questo magazine, un decimo lo dedico a documentarmi sull’argomento da trattare, un decimo alla stesura vera e propria e i restanti otto decimi a controllare che ogni parola che scrivo sia effettivamente corretta. La cronologia di Google tradisce tutte le mie esitazioni su arcani come valige o valigie e se stesso o sé stesso, mentre mi sembra di percepire con la coda dell’occhio la mia maestra delle elementari che fa harakiri e, al suo fianco, un sedicente agente televisivo che mi invita a iscrivermi ai provini del Grande Fratello.
La stigmatizzazione per chi vilipende la grammatica è un classico di questo Paese, habitat naturale di quelli che la comunità di internet chiama grammar nazi: puristi ossessivi della correttezza linguistica, secondo loro stessi investiti del grado di paladini dell’ordine del Devoto-Oli, con la penna rossa sempre ben affilata nel fodero portato alla destra. Un congiuntivo “fantozziano” può costare a un politico la fiducia degli elettori, molto più di un attacco alle istituzioni o alla stampa; del resto, a differenza dell’educazione civica, nessuno ha mai pensato di cancellare o ridurre le ore settimanali di insegnamento della grammatica nelle scuole.
Che una materia approcciata come una religione generi il fanatismo è abbastanza fuor di dubbio, come anche che elevare indiscriminatamente ogni suo principio ad assioma inderogabile esponga al rischio di imposizione di norme linguistiche obsolete e al conseguente errore ideologico di considerare viva una lingua solo quando essa si cristallizza. Si pensi al caso di petaloso, passato dall’essere materiale per rubriche da tempo libero a un presunto attentato alla memoria di Pietro Bembo.
Prendiamo ad esempio se stesso: abbiamo tutti imparato a scriverlo senza l’accento, pur ignorando la regola grammaticale che lo imponeva… e che, infatti, non esiste. L’accento non viene messo poiché, introducendo stesso la funzione riflessiva del sé, il costrutto risulterebbe ridondante: un procedimento difficilmente giustificabile, pressoché assente nella lingua italiana. Il sito dell’Accademia della Crusca, in quest’articolo, cita Luca Serianni (Grammatica italiana – Italiano comune e lingua letteraria, Torino, Utet, 1991o’, p. 57): «Senza reale utilità la regola di non accentare sé quando sia seguito da stesso o medesimo, giacché in questo caso non potrebbe confondersi con la congiunzione: è preferibile non introdurre inutili eccezioni e scrivere sé stesso, sé medesimo. Va osservato, tuttavia, che la grafia se stesso è attualmente preponderante»
Sempre la Crusca, in quest’altro articolo, diffida dal marchiare a fuoco chi usa il ma però, al quale si può imputare una soggettiva cacofonia, ma non la scorrettezza grammaticale. La congiunzione avversativa ma appartiene sia al sottogruppo avversativo-oppositivo (es. Dante non era milanese, ma fiorentino), sia a quello avversativo-limitativo (es. Marco non è intelligente, ma è simpatico): a seconda della congiunzione che gli si accompagna, dunque, il ma è usato con l’una o l’altra funzione, evitando così la presunta ridondanza che è all’origine del presunto errore.
Argomento troppo scottante perché il pavido sottoscritto si azzardi a toccarlo è quello del qual è, fortunatamente già trattato da Luca Passani in questo ulteriore articolo del sito La Voce di New York. In breve: se l’apostrofo non va messo perché qual è apocope e non elisione, va tuttavia riscontrato che qual è una forma arcaica, estinta nel parlato quotidiano se non in certi modi di dire (qual buon vento esiste, qual film vediamo stasera no). Il locutore, preferendo l’uso di quale indipendentemente dall’iniziale della parola che segue, dovrebbe pertanto eliderlo per ottenere il qual’è.
I tre soprastanti sono solo alcuni delle decine di esempi che si potrebbero fare di come la nostra grammatica venga insegnata come una scienza statica, con tutte le approssimazioni del caso. Nulla di sbagliato, in realtà: le regole alla base di una comunicazione fluida si imparano nella prima infanzia e, per essere meglio recepite, devono essere chiare e ineludibili. Ciò non dovrebbe comunque impedirci di svolgere i nostri approfondimenti una volta entrati nell’età della ragione quasi stessimo trattando dell’essenza di Dio, anche e soprattutto quando usiamo il dizionario come arma per redarguire gli eretici. Se scrivere sé stesso è un refuso, sentirsi superiori a chi lo scrive, in virtù di una regola imparata passivamente in prima elementare e mai realmente indagata, è un vero e proprio errore.