ELENA ZETA GRIMALDI | Dall’entrata di Alba Dorata nel parlamento greco, all’elezione di Trump negli States, alle vittorie sfiorate dal Front National in Francia, alle nuove politiche di Salvini nel nostro Bel Paese, negli ultimi dieci anni quel che rimane della sinistra (e affini) si è diviso in due: da un lato c’è chi allarma un ritorno delle politiche nazionaliste (e quindi protezioniste, razziste, reazionarie, xenofobe), dall’altro l’idea è che tutta questa demagogia della paura  sia semplicemente funzionale a prendere voti (e quindi soldi). Una sola cosa è sicura: noi non c’entriamo niente, la colpa è di qualcun altro… o forse no?

A far traballare le nostre confortevoli certezze ci pensa la compagnia Frosini/Timpano che, dopo aver replicato il loro acclamato Zibaldino africano tra i vigneti dell’Etna, approda nella città dello Stretto portando a Il Cortile – Teatro festival lo spettacolo Dux in scatola – autobiografia d’oltretomba di Mussolini Benito, un monologo che ha ormai più di dieci anni ma che non ha perso mordente né sul pubblico né sulla realtà. Anzi, forse alla luce delle recenti derive destrofile della politica potrebbe suonare come una riflessione che avremmo dovuto far radicare a tempo debito.

In scena insieme a Daniele Timpano c’è… un baule. Più precisamente: uno dei bauli (quattro) in cui il corpo del duce venne trasportato di qua e di là per il Nord Italia per oltre dieci anni. Non sappiamo quanto del racconto dell’uomo sul palco corrisponda a verità, e non sappiamo con sicurezza neanche chi sia l’uomo sul palco: Daniele Timpano? Mussolini Benito? Un suo collaboratore? Un nostalgico? Chissà. Fatto sta che prima di cominciare a raccontarci la storia, quell’uomo precisa che dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione, e immaginare tutti insieme che il duce – il suo corpo morto, nel baule – sia lui, l’uomo che abbiamo davanti.

«Io non so come io sia morto. Ma ero da “accoppare subito, in malo modo, senza processo, senza teatralità, senza frasi storiche” disse di me − se io fossi lui − Luigi Longo, comunista».

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Foto Giuseppe Contarini

Dopo questa piccola, fondamentale precisazione, la storia può cominciare dal principio: la fine di Mussolini Benito avviene il pomeriggio del 28 aprile 1945, sabato, alle 16. O forse la mattina del 28 aprile 1945, sabato, alle 11. O forse nella notte del 27 aprile 1945, venerdì. «E alle 11 o alle 16 del 28 aprile 1945, sabato, la mia fucilazione sarebbe stata una mia fucilazione finta, di cadavere».
Una miriade di date, citazioni, commenti, informazioni varie, vengono sciorinate durante tutto  lo spettacolo come ancore per aggrapparci alla storia, ma che si rivelano presto solo placebo per la nostra coscienza atrofizzata: a Predappio, dove il corpo morto del duce riposa, il corpo vivo del duce morto ci ricorda che possiamo tutt’ora trovare (insieme a portachiavi, spille, tazze, calamite, busti del duce, manganelli “Me ne frego”, liquori del duce) la guardia d’onore del duce, un gruppo di volontari che sorveglia la cripta di famiglia.

Racconto e commento, parole e azioni si contraddicono, illuminando in controluce i contorni di un fascismo mai realmente spentosi: quando fu, quando non fu, il corpo del duce è morto e, per mimarlo, l’attore russa.
Tutto il monologo è un gioco di riflessi e negazione, tra l’attore e il suo baule, tra palco e platea, una palla impazzita che rimbalza tra immaginazione e immedesimazione lungo la scia di una deriva culturale che fa parte di noi e della nostra società, confondendo causa ed effetto, creazione e creatura.

La risata di uno spettatore fa scattare nell’uomo sul palco (Timpano? Benito? Uno di noi?) l’unica violenta invettiva dello spettacolo: certo ora ridiamo, ci permettiamo di ridere dall’alto del nostro presente, come se fosse diverso dal passato, come se non c’entrassimo niente, come se si parlasse di altri; non siamo forse il prodotto di secoli di cultura prevaricatrice e retorica? «Io e voi, io e te, non siamo mica come quei fascisti là fuori»: lasciando perdere busti e nostalgie, non siamo forse tutti noi reazionari, aristocratici, razzisti, papalini, paternalisti, e sessisti?

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Foto Giuseppe Contarini

Giusto il tempo di essere lanciata, la ben mirata frecciatina viene messa da parte, subito si torna alla normalità del racconto, e possiamo rimettere sotto la sabbia la nostra testa con tutti i suoi sensi di colpa e concentrarci su qualcosa di più confortante: le rocambolesche avventure del russante corpo morto del duce.
Che viene trafugato, nascosto, spostato, reinscatolato, rinascosto, tra le mille versioni contraddittorie che non rendono mai chiaro da chi o perché, catturandoci completamente, sommergendoci di informazioni che ci illudono di avere la storia nel sacco o, meglio, nel baule. Ma nel baule, in realtà, non ci sta più niente. Quello in scena è una riproduzione e quello reale non c’è più. Il corpo del duce è sorvegliato e sicuro nella sua cripta di famiglia a Predappio. E continua a russare. Sepolto sotto il marmo fascista, protetto dalla guardia giurata volontaria fascista, osannato dai nuovi fascisti, immortalato nei gadget fascisti. Niente di più lontano da noi, niente di più vicino alla realtà.

Lo spettacolo ci lascia così: nel dubbio di avere un dubbio. Il fascismo è finito, ma forse no; siamo stati attaccati, ma forse no; i fascisti siamo noi, ma forse no; siamo anche noi colpevoli, ma forse no. Impossibile dipanare questa matassa di autoillusioni (o forse no) sulle sedie della sala, non ci resta che uscire e decidere come farlo: allegri e leggeri come o più che all’entrata, o caricandoci in spalla il fardello di questo dubbio, portandocelo a casa e coltivandolo fino a far radicare i germogli di una nuove riflessione.

 

DUX IN SCATOLA
autobiografia d’oltretomba di Mussolini Benito

drammaturgia, regia, interpretazione Daniele Timpano
collaborazione artistica Valentina Cannizzaro e Gabriele Linari
produzione amnesiA vivacE
in collaborazione con Rialto SantambrogioConsorzio Ubusettete

Il Cortile – Teatro festival, Messina
29 luglio 2019

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