RENZO FRANCABANDERA | L’arrivo in treno a Venezia Santa Lucia è uno sbarco in un altro mondo: in questa città si accede ad una dimensione diversa dell’esistenza, molto teatrale, dove vero e falso, finto e originale si mescolano nel giro di un ponte, di un campiello. Il lungo itinerario che collega la stazione a Piazza San Marco è un flusso ininterrotto di turisti e locali, tutti diversi ma tutti di fatto uguali. Ogni cosa si somiglia nella finzione della fiumana multietnica: uno sterminato seguirsi di negozietti, in cui si vendono oggettini di vetro di Murano realizzati in qualche remota provincia cinese, originali maschere veneziane coi merletti di Burano, visibilmente made in Indonesia.
Basta però uscire di poco dal percorso obbligato destinato al gregge turistico che costeggia il Canal Grande e si accede alla dimensione dell’identità veneziana, certo residuale ma ancora in qualche modo originale.

In ragione di questa considerazione, lo spazio dell’Arsenale e dei Giardini della Biennale, per arrivare ai quali occorre camminare ben oltre la Piazza in direzione del Lido, rappresenta uno spazio a suo modo di verità oltre il recitato turistico-artificiale che in gran parte si celebra fino all’arrivo alla zona della basilica. Si riconosce in chi esce dall’itinerario della mandria, un’intenzione, una volontà di esplorare l’altrove, lo spirito del viaggiatore.
E Biennale, pur essendo Venezia, pur essendo anche nei suoi teatri centrali, la inizi a respirare quando esci da “quella” Venezia.
Il 47. Festival Internazionale del Teatro si è svolto fino al 5 agosto 2019,  e lo abbiamo raccontato con il divertente e puntuale reportage di Elena Scolari (qui gli articoli 1, 2 e  3) e l’intervista a Hillje di Giambattista Marchetto, a cui rimandiamo.
Antonio Latella ha impresso alla “sua” Biennale una direzione ampiamente laboratoriale e inclusiva, votata alla creazione di un campus per le giovani generazioni (Biennale College Teatro, il progetto formativo dedicato per il terzo anno ai giovani registi e registe italiani) e al confronto fra la scena italiana di ricerca e quella internazionale, una ricetta che negli anni ha portato consenso e attenzione crescenti, arrivando quest’anno in particolare a una rassegna connotata da una serie di “tutto esaurito” per ogni genere di proposta con una grande attenzione mediatica e della critica. Evidentemente un successo, anche per la capacità di coagulare attorno al progetto la complessità del teatro italiano ma anche e sopratutto alcune realtà meno istituzionali seppur dirompenti per pratica e presenza nella scena nazionale. Come inquadrare, altrimenti, il focus dedicato quest’anno ai Quotidiana.com, ad esempio?

Tutto esaurito al Goldoni per il debutto del nuovo lavoro di Lucia Calamaro con Nostalgia di Dio. La scrittura dell’autrice contribuisce a creare una sorta di corpus drammaturgico per taluni versi unico, intendendo con l’aggettivo non solo la specifica originalità del tratto compositivo ma anche la natura organica che lo attraversa e che collega i vari spettacoli. Nell’evolvere della vicenda artistica della Calamaro, i suoi spettacoli hanno la straordinaria capacità di mantenere una organicità di atmosfera emotiva che in fin dei conti i suoi appassionati cercano. Una sorta di capacità introspettiva di tuffarsi nell’indecisione, nelle ragioni del fallimento dell’umanità vissuta però in presa diretta nello sguardo sul consesso sociale borghese occidentale. Le sue figure letterarie sono eterni Zeno, sono Stoner di Williams, moralmente spesso integerrimi ma incompiuti nel loro percorso identitario, vuoi per volontà propria, vuoi per il contesto sociale in cui si trovano a vivere. In questo spettacolo la Calamaro prova ad affrontare il rapporto con il senso del sacro, evocato chiaramente già dal titolo.
La “situazione” drammaturgica si incardina su una coppia dopo la crisi coniugale e la separazione. Si aggiungono un’amica della coppia altrettanto incompiuta, goffa e avvinghiata nelle dinamiche relazionali dei due, e un sacerdote amico di famiglia, confidente. Un primo tempo brillante, commedia purissima, con due ambientazioni: una geniale ouverture su campo da tennis con partita (vera) in palcoscenico fra due uomini, con batti e ribatti; entrata in stile-Alberto Angela di una delle protagoniste, con monologo-confessione in puro stile Calamaro, rottura della quarta parete con finto dialogo con il pubblico e ode al dubbio esistenziale (si sguazza qui fra citazioni letterarie implicite ed esplicite) e tutto sembra un fantastico tableau vivant.

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Il giardino dei Finzi-Contini: un fotogramma del film di De Sica

Dopo un cambio scena veloce ci si trova nella ex casa della coppia dove lo sfilacciamento della relazione umana fra i due si innesta sul filone religioso e l’entrata in scena del parroco che li invita a una simbolica passeggiata per le sette chiese a Roma impegnerà tutto il secondo tempo. Qui, su sfondo azzurro (sempre perfetto il dialogo delle luminescenze di Gianni Staropoli con le creazioni letterarie della scrittrice) e brecciolina sul pavimento che esalta il rumore dei passi, i quattro nella vicenda camminano a piedi dall’alba, vagando in pellegrinaggio dentro un nulla esistenziale, senza vera direzione e tempo. La religione, ma forse meglio dire la Fede, ora rito, ora mito, ora credenza ancestrale, si affaccia come sussulto in controluce, fino ad ardite similitudini con la vicenda di Maria, la natività ecc.
All’ouverture fulminante e ispirata, sia drammaturgicamente che (soprattutto) registicamente, con idee di pregio dentro un ambiente decadente (evidentemente collegato alle atmosfere de Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani dove, ricordiamo, il campo da tennis è nell’hortus conclusus delle mura di cinta, e che tra l’altro nell’edizione del 1962 aveva al suo interno la riproduzione dell’acquaforte Campo di Tennis di Giorgio Morandi del ’23), non segue però un altrettanto ispirato svolgimento del complicato tema evocato nel titolo. Lo stile di scrittura della Calamaro può o meno coinvolgere: nella critica ci sono colleghi vigorosamente appassionati della sua prosa senza pause e respiri (come anche la regia, che vive di horror vacui verbale); la platea piena del Goldoni fa capire che il suo seguito è comunque significativo. Ha creato sicuramente un genere.
Il lavoro, ciò non di meno, abbisogna di un rodaggio e anche di trovare alcuni dettagli-chiave del postulato poetico, che ancora sfuggono all’ingranaggio complessivo: la creazione e i nodi profondi che legano il tema della Fede alla vicenda di questa coppia in crisi, alla loro dinamica relazionale e filiale, risultano forzati proprio nelle parti più filosofiche, meno risolte.
Il passaggio dalla riuscita satira sociale iniziale, in cui i quattro interpreti Alfredo Angelici, Cecilia Di Giuli, Francesco Spaziani, Simona Senzacqua sono peraltro assai a proprio agio, al tragico esistenzial-morale (con possibile atterraggio su qualche mattonella di speranza) è ancora sconnesso, in questo debutto a Biennale.
Chissà che l’autrice non abbia tempo e modo, come non di rado è già capitato, di rimetter mano all’impasto.

Schizziamo con una barchetta all’Arsenale, per l’attesa proposta del giovane regista Giovanni Ortoleva, premiato con una menzione speciale nella scorsa edizione della Biennale College Teatro 2018-2019, e che quest’anno presenta una rilettura per la scena della figura di  Saul.
Una riflessione intorno ad una atipica, fallimentare e malinconica figura biblica del primo mitico re del popolo ebraico, che parte con una nitida citazione filmica con il colossal hollywoodiano sullo sfondo, mentre il molto meno enfatico re (un buon Marco Cacciola) appare seduto in poltrona dentro un interno finto nobiliare decadente, circondato da rifiuti da cibo consumato in autoreclusione: lattine, contenitori di cibo fast food.

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foto di Andrea Avezzù

Perfino Dio si pente di aver eletto Saul re di Israele e, nella leggenda biblica, favorisce l’avvento di David, giovane generoso ma anche spregiudicato, guerriero ma anche cantante e poeta. Qui in scena oltre ai due contendenti, anche la figura dell’acerbo figlio del re, Gionata, che a suo modo si lega a Davide in modo finanche ambiguo. Ma morrà.
Lo spettacolo ha un sapore per taluni versi drammaturgicamente latelliano, con la rivisitazione in chiave contemporanea del classico, il richiamo drammaturgico al mito, spiegato in proscenio al pubblico come in un inciso dello spettacolo (utile per il pubblico in sala, così che possa leggere ed intuire qualche segno della vicenda, non tutta chiarissima nella trasposizione dei personaggi nel contemporaneo); tipico finale destruens, in stile mitteleuropeo, come ne Il servitore di due padroni, in cui la scena veniva praticamente smontata a sipario aperto. Qui avviene a sipario chiuso con un lungo, ed invero stucchevole, assolo del giovane re appena impalmato ed in crisi di identità pure lui, insieme al teatro di cui vuole dichiarare la crisi esistenziale (non una grande novità). Sicuramente una regia coerente e a tratti anche riuscita per il giovane regista e drammaturgo classe 91, anche se dentro un filone che, volgendo lo sguardo all’ultimo decennio, ci pare abbia già indagato molti dei suoi potenziali, fino ai parossismi estetizzanti di maniera. Non è questo il caso, siamo dentro un esercizio creativo in cui comunque c’è uno sforzo grande del fare,  anche da parte del generoso e folto gruppo dei teatri co-produttori.
Ma la creazione pur risultando a tratti apprezzabile e volitiva, non bilancia del tutto l’acerbità nella scrittura e nello spessore scenico dei due più giovani interpreti Alessandro Bandini (David) e Federico Gariglio (Gionata), cui è affidato il racconto del complicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta, e le diversità del carattere e dell’indole di ciascuno.
Alcune questioni sia di testo che di regia vanno forse ripensate.

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foto di Andrea Avezzù

Poco ci ha convinto Love, secondo dei due spettacoli, in prima europea, che le australiane Susie Dee (regista) e Patricia Cornelius (drammaturga) presentano alla Biennale Teatro 2019, un’altra vicenda di adolescenti che Pasolini avrebbe definito di borgata. Sembrano usciti vent’anni dopo da un Trainspotting qualsiasi i tre interpreti, con una storia d’amore lesbo con terzo incomodo. Tanya (Tahlee Fereday) si innamora di Annie (Carly Sheppard) in una relazione di desiderio e intimità. Provano a viversi, senza riuscirci, la loro storia anche perché Annie finisce in prigione. Il motivo non è chiarissimo, forse uno scontro con Lorenzo (Benjamin Nichol), terzo incomodo. Tre vite maledette, fragili, condannate fin dal primo momento in cui si presentano allo sguardo del pubblico.
Sono su un ring, in un combattimento per accaparrarsi l’amore di una delle due interpreti, che vive il suo amore ora di qua, ora di là, fra due figure ciascuna a suo modo immature e dannate. È pugilato proletario, non fioretto alto borghese: sono storie che, si sa, finiscono sempre un po’ maluccio. Non facciamo eccezione neanche in questo caso. Bello il sostrato musicale di una vicenda caratterizzata però da una serie di ridondanze fra gesto e parola. Oltre il ring il nulla, il buio, come a isolare i tre dal resto del mondo, che però li ha portati al loro essere così. La relazione col mondo esterno è chiusa ma in questo microcosmo né il testo né la recitazione né la regia offrono la ricchezza simbolica che una vicenda come questa potrebbe avere.

La vera sorpresa in questi giorni è il lavoro di un giovane e fresco collettivo teatrale coreografico canoro olandese CLUB GEWALT, per la regia di Mara van Vlijmen che racconta, in un divertente musical dalle tinte fintamente ginniche, la vicenda di un ginnasta dallo spirito dannato.

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foto di Andrea Avezzù

Una esilarante e riuscita narrazione coreografico-canora della vita sportiva di un talento olandese rende onore al coraggioso e tenace Yuri van Gelder, il miglior atleta olandese agli anelli, che ha poi bruciato la sua carriera secondo il più classico dei paradigmi dei geni sregolati.
Per gli appassionati di disciplina ginnica, sembrava quasi una combinazione incredibile che ai trionfi di Jury Chechi, il nostro Lord of rings (Signore degli anelli), nel decennio fra il 1990 e il 2000, succedessero quelli di un suo quasi omonimo, ma nato, anziché a Prato, a Waalwijk, in Olanda.
Per raccontare in 40 minuti circa in una sfida di precisione con il cronometro (che però a Venezia hanno perso per alcuni secondi), il collettivo si posiziona in formazione finto olimpionica, tipo nazionale di ginnastica, con la tuta aderente, su un tappeto danza con segni e perimetri a pavimento, un orologio digitale a led rossi a parete e panche che fanno palestra.

La vicenda di Van Gelder campione negli anelli maschili agli Europei e ai Campionati del mondo di ginnastica artistica del 2005, bronzo l’anno successivo ai Campionati mondiali di ginnastica artistica del 2006 e argento a quelli del 2007 merita di essere raccontata.
Il giovane non resiste alla pressione della fama  e della gloria, un po’ come Saul. Il 13 luglio 2009, ha rivelato di aver fatto uso di cocaina tre giorni prima dei campionati olandesi. Dovette restituire la medaglia d’oro al campionato nazionale e fu sospeso dall’Unione olandese di ginnastica, condannato a saltare anche, in base ai regolamenti del CIO, i Giochi olimpici nel 2012. Fu anche licenziato dal suo lavoro con l’esercito olandese, che ha una politica sulle droghe assai restrittiva. Di qui in poi una serie di vicende rocambolesche che lo spettacolo racconta cambiando di coreografia in coreografia, fra coretti, travestimenti, assoli e schitarrate.
Ritiratosi misteriosamente dai Mondiali del 2010 pochi giorni prima dell’inizio, l’atleta si è poi rifiutato di rispondere a domande sui farmaci. Nel 2011 c’è stata una istanza di appello, contro la regola generale che dopo una sospensione vietava all’atleta di partecipare ai successivi Giochi Olimpici. L’appello fu accolto, e quindi Van Gelder ebbe la possibilità di qualificarsi per le Olimpiadi. Avrebbe dovuto ottenere un buon risultato ai mondiali di ginnastica artistica 2011, ma non successe.
Quindi sfumarono le Olimpiadi 2012.
img_7863Alle Olimpiadi estive 2016, invece, si qualificò finalmente per la finale su anelli. Sembrava il riscatto finale.
E invece una settimana prima della finale, è stato allontanato dalla squadra olandese come misura disciplinare perché – contro le regole della squadra – non era tornato al Villaggio Olimpico a dormire, intrattenendosi fino all’alba in bagordi notturni a base di alcool.

La spietata stampa olandese raccontò che il loro “Lord of rings” si era trasformato nel “Lord of drinks”. L’appello al Comitato Olimpico Nazionale affinchè ripristinasse la posizione di Van Gelder in finale fu respinto.
Come non poteva, una storia del genere, finire a teatro?
Ci finisce in un modo divertente, rispettoso finanche della fragilità, e con quell’ironia (ma anche autoironia) irriverente, che un po’ è mancata negli altri spettacoli di cui si è parlato.
Tanto è valso all’intrepido gruppo ginnico, alla fine della (questa sì tragicomica) rock opera, una standing ovation a cui ci siamo volentieri accodati, in questo passaggio che in due giorni ci ha portati dalla Nostalgia di Dio, al rifiutato da Dio, passando per i dimenticati da Dio, fino al Signore dei cocktail.
Effettivamente non c’è più religione! Meglio qualche vecchio rimedio anti sfortuna, come ci ricorda plasticamente l’arte mentre ritorniamo a piedi dall’Arsenale verso la fiumana, verso il mondo più finto del finto del teatro.

 

 

NOSTALGIA DI DIO

testo e regia Lucia Calamaro
con Alfredo Angelici, Cecilia Di Giuli, Francesco Spaziani, Simona Senzacqua
luci Gianni Staropoli
scene e costumi Lucia Calamaro
assistente alla regia Diego Maiello
disegno dell’angelo Luca Privitera
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Metastasio di Prato in collaborazione con Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin 2018_2020

SAUL

liberamente tratto dall’Antico Testamento e da Saul di André Gide
regia Giovanni Ortoleva
drammaturgia Riccardo Favaro, Giovanni Ortoleva
con Alessandro Bandini, Marco Cacciola, Federico Gariglio
scenografia Marta Solari
musiche Pietro Guarracino
movimenti di scena Gianmaria Borzillo
produzione Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Teatro i, Arca Azzurra Produzioni
in collaborazione con AMAT, Comune di Ascoli Piceno nell’ambito di Marche in Vita. Lo spettacolo dal vivo per la rinascita dal sisma progetto di MiBAC e Regione Marche coordinato da Consorzio Marche Spettacolo

LOVE

testo Patricia Cornelius
regia Susie Dee
con Carly Sheppard, Tahlee Fereday, Benjamin Nichol
scene e costumi Marg Horwell
luci Andy Turner
compositore Anna Liebzeit
direttore di scena Rebecca Moore
manager di produzione Andy Turner
produttore Laura Milke-Garner

YURI, A WORKOUT OPERA

regia Mara van Vlijmen
performance, musiche e ideazione Annelinde Bruijs, Loulou Hameleers, Suzanne Kipping, Robbert Klein, Gerty Van de Perre, Amir Vahidi, Sanna Elon Vrij
ricerche sul testo Tommy Ventevogel
drammaturgia Anne van de Wetering
design luci Marijn de Jong
materiale grafico Met/Zonder Studio
produzione Silvia de Vries
management Rick Mouwen
in coproduzione con Operadagen Rotterdam

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