ILENA AMBROSIO | Il flusso ricco e generoso del racconto che coinvolge nel suo scorrere energie artistiche, ma raccogliendo in sé anche quelle del pubblico e di chi desidera alimentarlo e sostenerlo.
Si potrebbero riassumere in questo modo i due anni di lavoro che hanno portato Gaetano Colella, Enrico Messina e Daria Paoletta a realizzare il loro Metamorfosi. Racconto indistinto – visto durante I teatri della Cupa. Un tempo iniziato con delle difficoltà, quelle che costringono, forzano persino, a cambiare, a mutare ma che – all’inizio non lo sappiamo, ce ne accorgiamo sempre dopo – custodiscono spesso il seme di nuove possibilità, di scoperte e incontri fruttosi, di nuove forme da poter indossare.
Di questo tempo ci hanno raccontato Enrico Messina e Daria Paoletta.

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Foto Marco Ghidelli


Alla fine dello spettacolo, a Novoli, avete detto che il progetto di Metamorfosi è il risultato della vostra scelta di stare in una certa posizione rispetto al teatro. E allora partiamo da principio, cosa c’è all’origine di Metamorfosi e dell’incontro tra i vostri differenti percorsi artistici?

DP: All’origine c’è il fatto che tutti e tre, contemporaneamente, abbiamo vissuto un periodo di metamorfosi artistica, una serie di spostamenti che ci hanno fatto incontrare in Armamaxa.

EM: Armamaxa è nata nel ‘98 dalle mie esperienze milanesi. Nel 2008 le vicende della vita ci hanno portato a Ceglie Messapica, in concomitanza con l’inizio del progetto Teatri Abitati del quale siamo entrati a far parte. Ma, come si sa, quando è cambiata l’amministrazione regionale la direzione è del tutto mutata. Sono state fatte scelte che io non ho condiviso e che mi hanno portato a decidere di uscire dalla richiesta di finanziamenti regionali.
Nello stesso tempo Armamaxa si stava trasformando, gli anni della residenza avevano molto inciso sulla compagnia. C’è stata una diaspora del gruppo e io mi sono ritrovato praticamente da solo a dover decidere che cosa fare. In quel momento ho incontrato Gaetano e Daria. Gaetano che usciva dal CREST e Daria che, per sue vicende, si allontanava da Foggia ed era arrivata qui a Ceglie.
Abbiamo sentito che questo incontro poteva essere foriero di una nuova energia. Io ho chiesto esplicitamente a loro di darmi una mano con il teatro, perché con il loro aiuto avrei potuto mantenerlo in piedi. E di qua il passo è stato breve a pensare di lavorare insieme.

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Foto Guglielmo Bianchi

Vi siete dunque incontrati in un momento di metamorfosi della scena teatrale pugliese che ha costretto anche voi a mutare. E avete scelto le Metamorfosi di Ovidio per raccontare/affrontare questo mutamento. Cosa avete trovato in questa opera che vi permettesse di assumere una nuova posizione rispetto al teatro e al vostro percorso?

EM: Io credo che le Metamorfosi siano uno straordinario racconto e il raccontare è stata la chiave della fusione delle nostre esperienze. Il fatto profondo del raccontare che c’è nelle Metamorfosi è stato l’elemento che ha messo insieme le nostre anime. Poi abbiamo cercato di declinarlo passando attraverso le nostre esperienze; molto diversa quella di Gaetano, che è più attore che narratore, invece più artigianale la modalità di Daria e mia, che siamo nati e  cresciuti in bottega, dove si faceva tutto, dalla scrittura alle scenografie.

In effetti ho profondamente avvertito questo voler mettere in scena il racconto in sé, che si autogiustifica, a prescindere da qualsivoglia contestualizzazione. E lo si avverte anche in questa cornice narrativa in cui c’è un uomo che vive in un trullo e che mi è sembrato un vecchio sacerdote, un custode dell’arte del racconto.

EM: È esattamente questo. Lui è una persona reale e abitava in un trullo non lontano da casa nostra. Si chiamava Giuseppe ed era straordinario come fosse dentro un flusso continuo di racconto. Ovviamente non raccontava le Metamorfosi ma in qualche modo era, proprio come dici, un sacerdote della parola che aveva con la natura un rapporto simbiotico

DP: A Giuseppe ci siamo arrivati grazie alle parole di Pavese, al suo descrivere il mito come qualcosa di riconducibile a noi attraverso la nostra infanzia e memoria che, a sua volta, attraverso il mito si mantiene viva e intatta. Da questa idea iniziammo nell’arco dei due anni a fare scritture che fossero legate ai nostri ricordi e al nostro vissuto. Così è venuto fuori Giuseppe e il racconto madre di cui è protagonista, che serve anche a darci una collocazione spazio-temporale.

Ma secondo me anche aspaziale e atemporale. In fondo lo si potrebbe immaginare come un Ovidio che racconta da un trullo, perché no? Evidenzia l’universalità del racconto ovidiano e al tempo stesso lo rende più vicino.

EM: E infatti questa è stata un’altra chiave importante. Io con il mito ho sempre avuto un approccio molto intellettuale che me lo teneva distante. Una volta trovata la chiave di Giuseppe, abbiamo riscoperto nelle parole di Ovidio il nostro vissuto. In ognuno dei racconti ci siamo noi, non svelati, ma ci siamo tanto e questo fa da collante, serve a toccare l’emozione del pubblico. Noi non diciamo semplicemente le Metamorfosi, raccontiamo le nostre metamorfosi.

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Il racconto di Giuseppe fa da cornice a una serie di episodi che avete scelto tra quelli ovidiani, tra i quali però non è immediatamente percepibile un legame. C’è un filo drammaturgico che li tiene insieme?

DP: Ci siamo interrogati tanto e ancora una volta ci ha aiutato Pavese che individua nella bellezza l’unica guida dei racconti di Ovidio. Noi abbiamo cercato di comprendere, nel senso di prendere con noi, il significato più puro di questo, affidandoci al ritmo, al gusto della parola, ai nessi che si sfioravano senza mai incontrarsi. In una prima stesura c’erano più parole che da un racconto all’altra tornavano, si ripetevano; ora questa traccia è più delicata, più difficile da scorgere, perché abbiamo voluto preservare il peso del significato, del senso, di quello che si doveva scoprire. Ma per noi è rimasto forte il senso che dall’uno all’altro ci fa entrare e uscire.

E in scena entrate e uscite fisicamente da una costruzione che mi è parsa evocativa della fotografia in bianco e nero, l’immagine del racconto, di cui parlate all’inizio: le cornici con i velini neri e poi i vostri abiti, che rendono anche voi un po’ dei sacerdoti del racconto. Come siete arrivati a questo risultato?

DP: È stato anche in questo caso un percorso lungo per poi tornare all’origine, tornare alla concezione originaria di tenere il racconto vivo, di stare nel racconto, come fa magistralmente Ovidio nella sua scrittura. Altrettanto abbiamo voluto fare noi, riportando tutto all’essenza di un immagine, di un colore, sentendo piano piano che le nostre vesti erano quelle di chi custodisce e si prende cura; di chi sta nell’atto di tenere e in questo tenere si fa contenitore dentro il quale la materia si può continuamente formare, continuare a vivere e al tempo stesso nutrirsi delle trasformazioni che ognuno di noi porta. Quelle che vivevo io e che vivevano Enrico e Gaetano, alla ricerca di una casa.
Credo che nulla sia avvenuto per caso, tutto è stato spontaneo, genuino. Le altre persone che si sono avvicinate al progetto  lo hanno fatto senza nemmeno essere chiamate, sono passate di lì e ci hanno offerto il loro aiuto. Hanno preso parte all’operazione di crowdfunding che è dietro al progetto.

E secondo me vale la pena di sottolineare come materialmente è nato questo lavoro. Di farlo ora, che siamo, giocoforza, abituati a parlare di fondi, bandi, algoritmi. Mi scuserete un po’ di spirito naïf ma credo ancora che l’arte debba vivere in una dimensione lontana dal commercio. E mi pare che questo spettacolo sia nato così, con, prima di tutto, una raccolta di energie che si è trasformata successivamente anche in energia materiale.

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EM: Assolutamente sì. Quando ci siamo guardati negli occhi, dopo aver avuto l’idea, ci siamo detti: E adesso? Il primo istinto è stato rivolgerci al Festival internazionale della narrazione di Arzo al quale Daria e io abbiamo partecipato più volte negli anni e che abbiamo sempre considerato un luogo genuino del racconto. Ci sono tantissime persone che lavorano a questo festival sostenute dal pubblico senza il quale non potrebbero realizzarlo. Quindi ci siamo rivolti a loro, e ci hanno proposto di avviare un crowdfunding… noi non sapevamo nemmeno cosa volesse dire! Abbiamo presentato li il progetto, raccontando al pubblico quello che avevamo in mente di fare. Subito, all’uscita da questo incontro, due vecchietti ci avvicinarono dicendo che avevano difficoltà con internet ma che volevano partecipare comunque; ci diedero 100 franchi.

È commovente. Non si può avere l’illusione di fare arte senza denaro, sarebbe da ingenui ma, come dicevo, certe dinamiche come quelle a cui stanno costringendo il teatro dovrebbero essere davvero lontane dall’arte.

EM: La cosa che è stata preziosa per noi in questo crowdfunding è stata esattamente questa: appena abbiamo cominciato a diffondere questa proposta abbiamo avuto l’immediata percezione che i nostri spettatori si tiravano su le maniche; chi con un piccolo contributo, chi non potava nemmeno questo si è fatto promotore dell’iniziativa. Abbiamo avuto la sensazione netta che il pubblico si prendesse la responsabilità che l’istituzione non tutela. Io mi sono rifiutato di partecipare ai finanziamenti regionali perché per ottenere cifre comunque mai bastevoli, dovevamo piegarci a progetti altri. Non veniva mai finanziato il nostro lavoro; il nostro lavoro è fare arte e invece ci si chiedeva di fare uno spettacolo a novembre in un trullo per i turisti perché l’arte doveva servire unicamente a incrementare il turismo.
Allora avere questa risposta dagli spettatori è stata davvero la cosa più preziosa di questo viaggio.