RITA CIRRINCIONE | A dieci anni dalla scomparsa di Pina Bausch e a trent’anni dalla prima messa in scena dello spettacolo Palermo Palermo, la trentottesima edizione delle Orestiadi di Gibellina – sotto la direzione artistica di Alfio Scuderi – ha dedicato un ciclo celebrativo al ricordo della grande coreografa: sabato 3 agosto è stata inaugurata la mostra fotografica Macerie e tacchi a spillo; giovedì 8 e venerdì 9 ha avuto luogo il laboratorio condotto da Simona Miraglia per preparare danzatori e non alla celebre camminata in quattro movimenti di DANCE! The Nelken-Line; sabato 10 agosto lo spettacolo Omaggio a Pina Bausch al Grande Cretto di Burri.
Arrivando al Cretto, qualche ora prima dell’inizio dello spettacolo mentre il pubblico giunge a rivoli da più direzioni per confluire ai bordi di quell’immensa e abbagliante distesa di cemento in mezzo alla campagna, sembra di vedere la scena di un film neorealista con i fedeli che accorrono dai tanti viottoli per radunarsi davanti al sagrato della chiesa appena fuori dal paese a festeggiare il santo patrono.
Anche qui di rito si tratta: una cerimonia per celebrare attraverso il linguaggio universale della danza e della musica Pina Bausch, la grande coreografa tedesca che ha cambiato il volto della danza e del teatro contemporaneo. Anche qui di un sacrario si tratta: sotto la coltre di cemento “tagliata” a isole che simbolicamente riproduce le case e le strade della vecchia Gibellina rasa al suolo dal terremoto di quarant’anni fa, oltre alle sue macerie, giace il corpo collettivo della comunità che vi viveva, l’anima dei morti e quella dei sopravvissuti.
Per questa performance-omaggio, a conclusione del festival, le rappresentazioni si sono spostate dalla consueta sede, il Baglio Di Stefano, a questo sito straordinario, un iperluogo per densità e stratificazione di senso, che Pina aveva avuto modo di visitare ai tempi del suo soggiorno in Sicilia durante la gestazione di Palermo Palermo e da cui era rimasta folgorata.
Quando Alberto Burri decise, come avevano già fatto tanti artisti di ogni parte del mondo, di rispondere alla chiamata di Ludovico Corrao – l’allora sindaco di Gibellina Nuova, visionario e carismatico artefice della trasformazione della sua città da luogo senza identità e senza storia a museo d’arte contemporanea a cielo aperto – capì che non era donando l’ennesima opera alla città ricostruita ex novo dopo il terremoto che avrebbe dato il proprio contributo. Fu visitando i ruderi della città vecchia che al grande maestro umbro – che nella sua opera aveva indagato “la materia oscura” di cui è fatto l’uomo e l’universo mostrandone crepe e ferite – nacque l’idea di un immenso sudario che avrebbe dato forma d’arte a quel cumulo di rovine: il Grande Cretto divenne una delle più vaste opere di land art al mondo, atto resiliente e rigenerativo per la comunità ferita.
L’omaggio è stato tributato da nove danzatori siciliani che in qualche modo nella loro storia artistica hanno incontrato la Bausch: alcuni in duo (Giovanna Velardi e Chicca Riccobono), altri in assolo (Giuseppe Muscarello, Patrizia Veneziano e Silvia Giuffrè) o in una coreografia di gruppo come quella del Collettivo SicilyMade di Simona Miraglia, Amalia Borsellino, Luigi Geraci Vilotta e Valeria Zampardi. Sparsi sulle isole del Cretto, i performer – ciascuno con la propria matrice artistica, con la propria sensibilità e con la propria modalità di entrare in relazione con quello spazio scenico speciale – hanno proposto cinque frammenti coreografici cogliendo un particolare aspetto dell’universo drammaturgico della Bausch: quello grottesco e quello poetico, quello vitalistico e quello più dolente, aggiungendo qui e là un tocco di sicilianità attraverso l’uso del dialetto o di una certa gestualità mediterranea.
La musica, ora ossessiva ora sognante e rarefatta, eseguita dal vivo dal sax soprano di Gianni Gebbia (musicista che, giovanissimo, collaborò con la coreografa tedesca) ha fatto da prologo e intermezzo alle diverse coreografie creando uno sfondo sonoro unificante.
Pina sarebbe contenta, ho pensato immaginando il suo sguardo un po’ di sottecchi, umano e immenso, e il suo inconfondibile abbozzo di sorriso, quello di chi della vita vede tutta la bellezza ma ne conosce anche la miseria. A conclusione della serata, sulle note di West End Blues di Louis Armstrong, insieme al gruppo che aveva partecipato al workshop propedeutico, stavo scandendo i gesti di DANCE! The Nelken-Line, la celebre coreografia itinerante che la Pina Bausch Foundation ripropone nei siti specifici più disparati del pianeta per ricordare Pina. Prima nelle fenditure che attraversano il Cretto e poi in una delle isole, una linea di corpi – corpi di uomini e corpi di donne, corpi sottili e corpi massicci, corpi minuti e corpi robusti – sfilava contro la luce del tramonto: la linea di una umanità in cammino con il suo abito migliore e un garofano al petto.
Tratta dallo spettacolo Nelken, storica messinscena del 1982 in cui il palcoscenico fu ricoperto da un tappeto di garofani rossi, la Nelken-Line rappresenta l’avvicendarsi delle stagioni, l’eterno ciclo della vita fatto di morti e di rinascite: la vita danzata nella sua totalità. Per il significato che ha assunto e per la semplice e immediata potenza gestuale, la sequenza sembra riassumere i principi fondanti della Compagnia del Thanztheater di Wuppertal che la Bausch fondò negli anni Settanta del secolo scorso.
Portare la danza all’aperto, fuori dai luoghi canonici, sporcarla.
Danzare gli elementi, danzare la terra, l’acqua, la roccia, la sabbia.
Essere visti per sapere chi siamo: Finché ci sarà qualcuno che saprà vederci non saremo soli!
Danzare café, tram, ferrovie, spazi urbani, siti d’arte e di archeologia industriale.
Danzare la libertà e la prigionia.
Danzare come necessità e come salvezza: Dance, dance, otherwise we are lost!
L’omaggio a Pina delle Orestiadi aveva avuto inizio la settimana prima dello spettacolo, con l’apertura della mostra fotografica (curata da Roberto Giambrone) Macerie e tacchi a spillo di Piero Tauro, fotografo romano profondo conoscitore dell’opera della Bausch. Le macerie erano ciò che era rimasto di quell’enorme muro di mattoni rossi rovinato fragorosamente sul palcoscenico ad apertura di sipario; i tacchi a spillo erano quelli delle danzatrici che vi erano salite sopra subito dopo per cercare di sgombrarle. Lo spettacolo era Palermo Palermo, complessa composizione drammaturgica, opera leggendaria che tuttora viene replicata nei teatri europei, indimenticabile per i palermitani che vi assistettero.
Era il 1989, e quel muro che crollava, incredibilmente sincronico con la storia, era il primo quadro che l’immaginario di Pina aveva creato per Palermo Palermo. Per tre settimane aveva soggiornato in città cercando di respirarne l’atmosfera: si era fatta attraversare dalle sue contraddizioni, dal suo fatalismo e dalla sua rabbia, dai suoi fasti e dalle sue miserie; aveva cercato di cogliere l’anima di una città devastata dalla mafia e desiderosa di riscatto. Poi era ripartita, e le impressioni, filtrate e sublimate, erano sfociate in quello spettacolo. Aveva acchiappato, la “munnizza” e i mandorli in fiore, la sontuosità barocca e le voci dei mercati, l’“annacata” dei portatori di bara e la cronica mancanza d’acqua, e in quella rappresentazione li restituiva allo sguardo della città che vi si riconobbe: in quello specchio vedeva quello che solo la trasfigurazione artistica rende visibile. E forse perché, dopo tanti crolli e tante macerie, grazie al lavoro creativo e coraggioso di quella “piccola” donna tedesca, adesso era pronta a vederlo.
OMAGGIO A PINA BAUSCH
con la partecipazione di Amalia Borsellino, Luigi Geraci Vilotta, Silvia Giuffrè, Simona Miraglia, Giuseppe Muscarello, Giovanna Velardi, Patrizia Veneziano, Valeria Zampardi
musiche eseguite dal vivo da Gianni Gebbia
consulenza di Roberto Giambrone
adesione al progetto promosso dalla Pina Bausch Foundation DANCE! The Nelken-Line
con il Collettivo SicilyMade
Cretto di Burri, Gibellina vecchia
10 agosto 2019
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