LAURA NOVELLI | Abito bianco di foggia un po’ retrò. Capelli e frangetta corti. Volto senza un filo di trucco. D’altronde, non servono ombretto e mascara per sottolineare l’energia del suo sguardo, profondo e mobile, capace di rincorrere le sottile sfumature vocali di un dire semplice, quasi dimesso, eppure potentissimo. Elena Arvigo è un’attrice/regista che non teme le sfide. Sfide artistiche attraversate spesso da un vigoroso sentimento di pietas per le fragilità umane, per la complessità del femminile. Sul palcoscenico dalla parte dei deboli, degli ultimi, delle anime tormentate o afflitte. I recenti lavori di cui è stata protagonista (citiamo il fortunato 4:48 Psychosis di Sarah Kane, Il Dolore di Marguerite Dumas, Una ragazza lasciata a metà di Eimear McBride, da lei stessa adattato e diretto, Le Troiane di Euripide e Non domandarmi di me, Marta mia di Katia Ippaso debuttato al NTF 2019 a metà luglio) ci raccontano un modo di essere donna prima che attrice. Un’idea del teatro come studio, ricerca, impegno emotivo e sociale. Tanto che proprio da una sua curiosità personale è nato il reading La metafisica della bellezza – Lettere dalle case chiuse con cui l’interprete genovese (qui anche regista) ha aperto la rassegna Di là dal fiume,promosso dal Comune di Roma (Assessorato Crescita Culturale) all’interno dell’Estate romana e organizzata dall’Associazione culturale Teatroinscatola in diversi luoghi del XII Municipio.
Diciamo pure, senza tema di smentita, che la vetrina non avrebbe potuto avere incipit migliore. La lettura della Arvigo, che mette insieme un corpus di lettere autografe scritte da alcune prostitute alla senatrice Angelina Merlin durante gli anni del dibattito parlamentare sull’omonima legge, è infatti una piccola/grande antologia di verità e di Storia italiana, dove risuonano echi disperatamente attuali. La legge Merlin, come è noto, venne promulgata nel febbraio del ’58 dopo un lungo e travagliato iter legislativo durato dieci anni (anni durante i quali la coraggiosa senatrice veneta ricevette numerose intimidazioni e minacce di morte) e portò all’abolizione di oltre 570 case di tolleranza in tutto il territorio nazionale. Fu, ed è tutt’oggi, una legge di fondamentale importanza non solo per le sue ricadute pratiche e sociali ma anche per la forza con cui il provvedimento si abbatteva contro quel viscido perbenismo borghese che autorizzava di fatto lo sfruttamento di migliaia di donne.
Si trattò, dunque, di un passo estremamente significativo in termini di riconoscimento dei diritti inviolabili della persona, della libertà individuale e della dignità propria di ogni essere umano. Concetti che, purtroppo, in questo momento storico in Italia non possiamo più dare per scontati. E non possiamo più farlo proprio perché sembra essersi smarrita la memoria della nostra stessa storia nazionale, degli ideali che ispirarono la lotta partigiana, la Carta Costituzionale, la neonata repubblica, la democrazia.
Pubblicate in un volume di non facile reperimento, Senatrice Merlin. Lettere dalle case chiuse – Ragioni e sfide di una legge attuale, a cura di Mirta Da Pra Pocchiesa (edizioni Le Staffette), e depositate autografe presso un notaio dopo che la stessa Merlin e Carla Barberis, moglie di Sandro Pertini, le ebbero raccolte e catalogate, queste missive raccontano con disarmante immediatezza quell’Italia post-bellica lacerata ma ricca di speranze e valori alti. Raccontano “da dentro”, dalla fodera dell’anima, la disperazione di tante giovani donne e madri costrette a vivere in uno stato di ignobile schiavitù. Tenute sotto scacco da tenutari, megere, sfruttatori e clienti privi di scrupoli, esse ci parlano di sentimenti forti, di soprusi e violenze inaudite. E ce ne parlano con un misto di rassegnazione e fiducia nel domani. Cedimento e trepidazione. Senza perdere mai di vista la dignità dell’essere madre; dunque un segno di profondo rispetto per il proprio corpo e per quei figli del peccato amati più di ogni altra cosa.
Sono scritture ora timide, ora più decise, ora sgrammaticate, ora baldanzose e combattive, ora straordinariamente lucide. In tutte risuona uno slancio appassionato a sostegno della Merlin: “Brava! Brava, senatrice, con la sua legge”. Molte delle protagoniste scrivono di aver perso i genitori durante la guerra o di essere state vittime di scandali, allontanate dalle famiglie d’origine. Chiedono un aiuto per trovare un impiego onesto, anche misero: quanto basti per sostentare se stesse e i propri bambini. Hanno vent’anni, venticinque, al massimo trenta, e vogliono combattere insieme alla loro salvatrice. Sperano di poterla incontrare, di poterle parlare. Alcune di queste missive costituiscono, inoltre, dei veri e propri documenti di valore storico-sociale in quanto descrivono senza pudori i terribili turni di lavoro delle donne (anche cento rapporti in un giorno), le pessime condizioni igieniche e sanitarie in cui esse vivono e, soprattutto, le scellerate collusioni tra tenutari, medici e addetti ai controlli sanitari (tanto da farci tornare in mente un capolavoro senza tempo quale è Luparella di Enzo Moscato, con una Isa Danieli indimenticabile). La lettera dell’epilogo ci regala, infine, una storia dentro la Storia: una prostituta orfana cresciuta a pane e socialismo che nella Merlin ritrova la forza e i valori morali dell’amato padre.
Ma va detto che, al di là dei contenuti, ciò che colpisce qui è sicuramente la lingua. E l’attrice, davvero brava, instaura un corpo a corpo molto fluido con le parole. A tratti le legge quasi a bassa voce, poi alza il tono e subito dopo lo spegne di nuovo. E questo italiano, anche laddove meno corretto sintatticamente, scorre come un fiume di bellezza persa. Un flusso di sostantivi, aggettivi, verbi così vario e musicale e antico da sembrare figlio – anche ad un primo ascolto – di un’altra Italia. A dispetto della tragicità delle circostanze, mai un tono sgarbato, indelicato, scomposto lo agita. Tra queste umanissime righe aleggiano, anzi, un candore e un’onestà carichi di sofferenza ma capaci ancora di sognare. Cosa, insomma, di più teatrale?
Motivo per cui ci auguriamo che questo lavoro, ancora in fase di studio e atteso a Firenze il 13 settembre nell’ambito della rassegna Il teatro delle donne (dove verrà replicato in duetto con Amanda Sandrelli), possa avere lunga vita sulle nostre scene. E possa essere visto in luoghi suggestivi come quello che lo ha ospitato a Roma qualche sera fa. Ovverosia, la sede trasteverina della Fondazione Santa Maria Francesca, oggi sede di una casa di riposo per anziani istituita negli anni ’70 per tenere viva la tradizionale destinazione d’uso di un palazzo ottocentesco di proprietà della famiglia Doria Pamphilj, impreziosito dalla splendida Chiesa medievale di Santa Maria in Cappella, che sorge laddove già nel Trecento vi era un ricovero per i pellegrini. Un luogo appartato, poco noto ai romani stessi e quasi sospeso tra sacro e profano, che per l’occasione ha visto una delle sue sale trasformarsi in ospedale del XIX secolo con letti e mobili d’epoca. È stato sufficiente aggiungere un leggio, un microfono e una coperta bianca ricamata per regalare a La metafisica della bellezza il suo spazio deputato.
La rassegna Di là dal fiume proseguirà poi nei prossimi giorni con eventi musicali, reading di poesie, concerti, installazioni acustiche, passeggiate urbane, escursioni in bicicletta: numerose iniziative e manifestazioni che si snoderanno nelle zone di Trastevere, Porta Portese, Ponte Testaccio e Ponte Marconi. Il 4 settembre, giornata conclusiva, tra gli appuntamenti in scaletta segnaliamo la conversazione di e con Pippo Di Marca intitolata C’è una fede nei nostri sogni (c’è un sogno nel nostro debutto) che si terrà nell’ex falegnameria di Via Portuense dove nel ’68 Giancarlo Nanni fondò il Teatro La Fede, una delle cantine romane più attive negli anni ’70, e dove lo stesso Di Marca debuttò come attore (era il ’69) prima di incamminarsi verso la visionaria avventura del suo Meta-Teatro. E se anche questo evento suona un po’ nostalgico, tanto meglio. Si vede che di nostalgia – etimologicamente, desiderio del ritorno – abbiamo tutti un gran bisogno.