FRANCESCA PALUMBO | Rintracciarsi nello sguardo degli altri spesso può riconnetterci alla cifra della nostra identità, specie quando ci sentiamo più fragili ed esposti, ed è esattamente questo che accade osservando le opere di Alex Prager. Con la mostra Silver Lake Drive, che include il suo progetto più rappresentativo, Face in the crowd, il coinvolgimento è immediato e non ha a che fare solo con un approccio visivo ma anche follemente epidermico. A me almeno è accaduto proprio questo, mi sono sentita spinta da altri corpi, chiusa tra altre persone, in totale sintonia con il personaggio centrale ripreso nel primo scatto che ho incontrato attraversando gli spazi del FOAM di Amsterdam.
Nella stanza successiva del museo poi, la stessa sensazione di spaesamento e immedesimazione mi ha assorbita completamente quando mi sono soffermata sul video. Qui la protagonista è una donna, Elizabeth, un personaggio familiare, affascinante e vulnerabile, che si materializza quasi come un faro al centro di una immensa confusione in cui vorticano altre figure a volte bizzarre, familiari oppure totalmente anonime. La percezione che se ne riceve è assolutamente immersiva e caratterizzata da un certo tenore di surrealità che lascia trasparire tracce tangibili di tristezza e nostalgia, soprattutto nello sguardo della donna in questione, ma allo stesso tempo di benevolenza nei confronti dell’umanità che la circonda e di cui è spettatrice e protagonista. Inizialmente Elizabeth guarda la gente da dietro una finestra. La vita sembra scorrerle davanti attraverso i volti che intercetta nella folla e ogni volto si fa sintesi di un universo singolare di preoccupazioni, pensieri, esperienze vissute. Poi però cambia il punto di osservazione e lei si sposta all’interno della folla muovendosi controcorrente e sfiorando i corpi degli altri. La vediamo sorridere ora, quasi in preda ad uno stato d’animo misto di sospensione e incanto. Le scene sono accompagnate da un sottofondo sonoro di musica classica tendente al drammatico in un continuo rimando di sfumature grigie come colore prevalente dell’intera inquadratura.
https://vimeo.com/122703938
Alex Prager, artista trentanovenne statunitense, fotografa e regista autodidatta, vive a Los Angeles. Le sue opere intrecciano arte, moda, fotografia e cinema e ognuno dei suoi scatti è realizzato come se fosse un film con tanto di sceneggiatura, casting di attori scelti tra persone comuni, più effetti speciali e scenografie. Numerosissimi i riconoscimenti ricevuti in questi suoi dieci anni di carriera. Le foto di Silver Lake Drive/Face in the crowd ci appaiono immediatamente ricche di dettagli e il suo indugiare sulle espressioni di ogni singolo soggetto ritratto sembra restituirci un monito: Stop and stare!! (Fermati e fissa!).
Ma cosa dovremmo fissare esattamente? Il girovagare di ognuno nel grande spazio, nella tipicità dispersiva dei non-luoghi in cui si è tutti e nessuno? Non è un caso che l’artista scelga di rappresentare il suo immaginario in posti come gli aeroporti, le spiagge, le metropolitane: scenari in cui le folle si ammassano e circolano indifferenti, autonome e perse, quasi inglobate in un caos permanente e invisibile che fa da involucro alle scosse esterne. Ma alla Prager non basta: lei satura i colori, rende l’atmosfera iperrealista e hollywoodiana, amplifica il senso di alienazione creando paesaggi umani potenti e sospesi in una costante percezione di straniamento capace di renderci tutti complici della sua vibrante esplorazione della finzione, una finzione che dice tanta verità! Di fronte alle sue opere siamo immediatamente portati a relazionarci con i vari personaggi e a chiederci cosa accade a nostra volta quando ci troviamo in situazioni simili, letteralmente stuck in the human jam, risucchiati al centro di una folla.
Cosa proviamo? Panico, solitudine, umanità, vuoto, curiosità? Forse soprattutto la sensazione di essere completamente fuori controllo. La folla rappresenta per lo più il paradosso del nostro esistere, e nella sua densità ci pone di fronte all’ unicità del nostro essere rispetto alla moltitudine, ma anche ci fa respirare la solitudine delle nostre vite. La Prager assume, nella distanza del suo sguardo frattalico, coinvolto eppure esterno, un atteggiamento latentemente voyeuristico ma benevolo; all’interno della grande massa si sofferma su ogni singolo individuo suggerendoci la sua storia insieme alla moltitudine di storie di cui ogni personaggio è circondato.
Face in the crowd ricorda per molti aspetti i suoi primissimi lavori, ma è in qualche modo un’opera molto più ampia rispetto alle precedenti, e anche più esaustiva e ambigua per molti aspetti. Di questa poliedrica artista ciò che più intriga è il suo modo di stare dentro e fuori dall’inquadratura, è quel saper vedere cosa si sta guardando. Una enorme consapevolezza, nell’hic et nunc. Il suo tempo è universale e privo di lancette ma è anche, nello stesso momento, il tempo della resa dei conti. Sapere dove si è. Saperlo e comprenderlo. Osservando la donna bionda dei suoi scatti (Elizabeth) viene da chiedersi se il suo spostamento nella folla sia simbolico, come intrapreso in uno stato di trance o di sogno. Disconnessa dalla folla, lei sembra persa nei propri ricordi. È alienata, distante, ma allo stesso tempo la folla che la risucchia e la spaventa è forse anche il pubblico di cui ha bisogno, il pubblico immaginario o virtuale con cui tutti noi costantemente ci confrontiamo, anche sui social, per ricevere consensi, conferme o chissà cosa rispetto alle nostre fragilità.
Forse quel pubblico è anche la folla dei nostri pensieri, il nostro tribunale interno, fatto di giudici, che colpevolizzano o assolvono, in un interscambio perenne di ruoli e punti di vista. Inizialmente lo spazio dell’allestimento nel FOAM di Amsterdam con le sue pareti chiare può non risultare del tutto adeguato a valorizzare sia la dimensione che la densa cromaticità degli scatti e del video della Prager, probabilmente uno spazio più grande avrebbe consentito di garantire un più ampio respiro ad una mostra così carica di suggestioni e rimandi psicologici. Tuttavia a posteriori, rileggendo la sua opera con la dovuta distanza critica e temporale, credo che la situazione degli spazi un po’ angusti si sia rivelata più funzionale alla creazione di quell’alone di ansia e ricercata claustrofobia che l’opera nel suo complesso vuole restituire.