RENZO FRANCABANDERA | Ventitreesima edizione del Festival Danza Urbana, una proposta che, sotto la direzione artistica di Massimo Carosi, ha attraversato due decenni della storia recente dell’arte coreutica, ponendosi ora in una complessa discussione sull’accoglimento all’interno della pratica, di esperienze sempre più ibridanti e crossmediali, capaci di passare (e forse anche oltrepassare) il codice della danza, portandolo ai confini con quello performativo e musicale.
All’orto botanico attorno agli alberi secolari, alle serre con le gigantesche piante grasse, quelle carnivore e una raccolta di piante di peperoncino di tutto il mondo, due danzatori, in assolo uno dopo l’altro, si muovono in simbiosi con l’ambiente, circondati da una platea numerosa, libera, e che vive questa proposta gratuita (come gran parte dell’offerta del festival) con partecipazione emozionata e anagraficamente molto differente.
Il primo assolo è quello di un giovane artista giapponese, Hisashi Watanabe, che torna a movimenti ludico ancestrali che ci riportano a parentele con i primati. Gioca con sei piccoli sacchetti bianchi muovendoli, prendendoli e facendoli scorrere sul corpo con gli arti. Andiamo dalla preistoria allo yoga, dall’Oriente alla Pangea in pochi movimenti. Fra contorsione, spinta verso il limite del movimento naturale dell’articolazione, giocando sulla autonomia degli arti, il personaggio portato in azione da Watanabe è metà umano e metà ferino, e gode di piaceri ludici fatti di semplicità. Questi sei sacchetti bianchi, ora palline da giocoliere, ora cibo, ora pietre, riescono a evocare pluralità preistoriche. E l’abilità del gioco del corpo fa davvero immaginare come abbiano potuto divertirsi (nel poco tempo libero che rimaneva loro quando non impegnati nei temi drammatici della sopravvivenza). È un po’ tornare alla palla fatta con i giornali, che qualcuno dei più anziani fra i presenti (ahimè anche noi) ricordiamo o abbiamo costruito.
Poetico.
Figlio espressivo della danza urbana è il secondo assolo, interpretato da Iván Benito, con l’ideazione e la regia di Vanesa Pérez, e nel quale parkour, breakbeat, street dance americana, si mescolano sul corpo di un danzatore vestito per metà con una tuta color carne, macchiata di decorazioni mimetiche che, insieme all’argilla sul volto, ne fanno un po’ un elemento naturale, un po’ una sorta di guerriero; un environmental fighter spaesato e in cerca di direzione.
Una scelta chiara del Festival anche sul tema uomo e territorio, sull’accoglimento delle estetiche ma anche sul ruolo filosofico e politico della presenza del corpo e dell’individuo nell’ambiente urbano e non solo.
Relazioni, forme dello stare, strutture non lineari del coesistere e del cooperare o anche solo entrare in relazione, agite da corpi “non conformi”, fuori dalle etichette e, nelle cui pieghe, è possibile ritrovare il senso più profondo di Umanità.
Come altro poter definire quel piccolo, brevissimo istante di pura drammaturgia silente che Alessandro Sciarroni ricava nel suo Save the last dance for me, proposto qui nella sala della Pinacoteca Comunale in cui, terminata la musica techno, ballata come un liscio di paese, i due ballerini continuano la danza privi del sostrato musicale, lasciando al puro ascolto alcuni sussurri di intesa sui passi.
Questa umanità un po’ imperfetta trova eccezionale descrizione nei costumi di Ettore Lombardi, che ci riportano agli anni Settanta, alla borgata, a una sorta di marginalità da balera gay, popolare ed elegante assieme, come le espressioni dei volti diversi eppure narrativi dei due interpreti, Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini.
Chi sono, come sono le loro vite, tutto quello che c’è prima e dopo la vorticosa giravolta lungo il perimetro del quadrato segnato per terra e che percorrono avvicendandosi nella guida del passo… strano a dirsi, ma quasi si riesce ad immaginarlo.
È proprio in quei pochi istanti, when the music is over, per dirla con i maestri del rock, che si condensa la vera potenza teatrale e poetica di Sciarroni.
Sempre il tema della ripetizione fino alla sazietà ha attraversato le arti. In questo caso, con riferimento alla ripetizione, il paradigma in cui inquadrare questa ricerca non è tanto il barocco, estraneo alla essenzialità quasi ascetica di Sciarroni (anche scenicamente parlando) ma l’esplorazione del limite dell’esperienza fisica tanto da portarla a scavare un assoluto emotivo nello sguardo dello spettatore.
È proprio quando la musica finisce e la danza continua, quando alcune luci cambiano ma il movimento resta, come accade in Chroma, che la vicenda, si tramuta, cambia il suo connotato, diventa improvvisamente narrativa e suggestiva. Sciarroni cerca quel preciso istante in quasi tutti i suoi spettacoli. È un momento della sua creazione precisamente individuabile, e pertiene al tema della trascendenza emotiva dall’esperienza danzata verso una sublimazione di cui solo i grandi dell’arte sono capaci. Cosa vuol dire quell’istante è il dramma che Sciarroni ci porta ad indagare; i suoi testi silenziosi in movimento, i suoi equivoci di relazione pinteriani che finiscono più addosso allo spettatore che ai personaggi in scena. E comunque anche in Chroma la cifra stilistica di Lombardi contribuiva in maniera cruciale a questo passaggio dal coreutico al drammaturgico. Ne annotiamo quindi la profonda capacità icastica e l’abilità dell’innesto dentro un linguaggio così pulito e nitido come quello di Sciarroni.
È evidente che questo aspetto diviene, come si è cercato di spiegare, cruciale nel linguaggio vocato all’indagine astratta dello spazio intimo cui si dedica l’artista, pur senza mai dedicarcisi in modo esplicito, ma sempre per intenzione tangente.
Un’altra creazione in cui il tema dell’apparenza e della sostanza, è La bellezza ti stupirà, di Enzo Cosimi, realizzato con un gruppo di cittadini provenienti anche da esperienze di marginalità, di strada, di vita scavata. L’esito dello scavo nelle esistenze coinvolte nel progetto è quanto Cosimi porta sotto gli occhi degli spettatori all’Oratorio San Filippo Neri, magnifico ambiente deputato alle arti dopo il restauro in legno del soffitto a spirale bombardato durante la seconda guerra mondiale. Si tratta del riadattamento di un ambiente sacro composto da una sola navata, con interno in stile barocco e lo spazio dell’antico altare (ora non più presente) rialzato rispetto allo spazio dei fedeli (ora appassionati dell’arte dal vivo). Lo spazio rialzato è qui quasi del tutto nascosto dalla presenza di un telo di proiezione. Ai piedi del rialzo, quindi sotto il telo di proiezione, un ammasso di veli e manti colorati, di stoffe pregiate. Da questo ammasso parte una sorta di passerella per quella che ha tutta l’aria di essere una sfilata, con il pubblico disposto ai lati e davanti alla stessa a chiudere i lati.
Entra la violoncellista Flavia Passigli che accompagnerà la sfilata e poi queste esistenze, una dopo l’altra, lentamente, prendono dall’ammasso di vestiti un po’ stile Venere degli stracci di Pistoletto, e scegliendo ciascuno il proprio pregiato manto, si avviano lentamente sulla passerella, per poi accomodarsi sul fondo, nelle prime file della platea lasciate vuote, quasi a esser pubblico e spettatori delle proprie esistenze in mostra. Un urlo, una ribellione, una sollevazione collettiva concluderà questa prima parte della proposta, con la violoncellista che, quasi come una Venere esausta e sfiancata, si accascerà sulla montagna di abiti con il suo strumento.
La seconda parte, se così possiamo definirla, è a video, e si tratta di estratti di vite, di testimonianze di queste, che sono prima di tutto delle grandi solitudini, trovatesi in difficoltà, senza che la società riuscisse a integrarle in una dimensione di possibilità.
A nessuno di loro è chiesto di essere altro da sé, di superare un limite che ne snaturi l’identità, e in questo la proposta di Cosimi si mantiene rispettosa e capace di arrivare comunque alla bocca dello stomaco con feroce intensità.
INVERTED TREE
coreografia/Interpretazione/Musica Hisashi Watanabe
costume Sakurako Gibo
disegno luci Tomohiko Watarikawa
oggetti di scena (palline) Radfactor
musica Toru Yamanaka
Per l’uso dello spazio si ringrazia Comune di Bologna e Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
GALAPAGO
ideazione e regia Vanesa Pérez
coreografia e interpretazione Iván Benito
musica autori vari (selezione a cura di Iván Benito)
in collaborazione con Red Acieloabierto
Per l’uso dello spazio si ringrazia Comune di Bologna e Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
SAVE THE LAST DANCE FOR ME
invenzione Alessandro Sciarroni
interpreti Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini
collaborazione artistica Giancarlo Stagni
abiti Ettore Lombardi
musica Aurora Bauzà e Pere Jou (Telemann Rec.)
produzione corpoceleste_C.C.00#, MARCHE TEATRO Teatro di Rilevante Interesse Culturale
coproduzione Santarcangelo Festival, B.Motion, Festival Danza Urbana
Evento realizzato in collaborazione con ATER – Circuito Multidisciplinare, MIBAC – Polo Museale dell’Emilia Romagna, Pinacoteca Nazionale di Bologna
LA BELLEZZA TI STUPIRÀ
regia, video, coreografia Enzo Cosimi
disegno luci Giovanni Magnarelli
violoncello Flavia Passigli
con la partecipazione dei cittadini
organizzazione Anita Bartolini
produzione Compagnia Enzo Cosimi, MIBAC, Cagliari Capitale Italiana della Cultura 2015
Evento in collaborazione con ATER – Circuito Multidisciplinare, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Mismaonda
con il supporto di Cantieri Meticci, Centro Interculturale Zonarelli, Avvocato di strada Onlus, Società Dolce, ASP-Bologna, Associazione Naufragi Làbas, Associazione MondoDonna Onlus, Piazza Grande
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