MARIA FRANCESCA GERMANO | La XXIII edizione del Festival Internazionale di Andria, Castel dei Mondi, le cui parole chiave multidisciplinarietà, innovazione, internazionalizzazione, partecipazione e accessibilità sono diventate il fortunato mantra della rassegna diretta da Riccardo Carbutti, si è inaugurata con uno dei progetti più originali della scena internazionale contemporanea.
«Forse tutti i draghi nelle nostre vite sono principesse che non attendono altro che vederci agire, solo una volta, con bellezza e coraggio». Il passo, tratto da Lettera a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke è il sottotitolo di Perhaps all the dragons, l’opera/installazione del collettivo belga BERLIN che dal 4 al 6 settembre ha occupato la chiesa Mater Gratiae di Andria.
È difficile categorizzare l’esperienza vissuta: se è vero che il teatro necessita di un concorso spaziale e temporale di uomini uniti dalla funzione dello sguardo, è anche vero che lo sguardo non basta a fare il teatro. Lo spazio teatrale, come luogo dell’attività di esseri umani in rapporto gli uni con gli altri e con l’insieme dei segni della rappresentazione, necessita di una relazione. Non si può, forse, nemmeno parlare di pura installazione o di arte performativa. A cosa stiamo assistendo? L’idea dei registi Bart Baele e Yves Degryse è stata quella di creare una linea drammaturgica partendo da narrazioni di storie vere, condensate in quello che hanno definito docu-fiction. Storie di persone di tutto il mondo riprese durante lunghissime interviste, tagliate e montate in un intricatissimo puzzle di trenta filmati.
Sostiamo nei pressi della chiesa in attesa che escano gli spettatori del turno precedente; dalla Mater Gratiae filtra una luce rossa da boudoir che istiga a sbirciarne i movimenti all’interno. Siamo accolti dai due sorridenti registi tra le pareti altissime dell’antica chiesa. Tufo intonacato, tinto del rosso proiettato da grossi fari fissati sulla pietra del pavimento. Al centro campeggia una enorme struttura ellittica sostenuta da un’impalcatura che rimanda a meridiani di cartine geografiche o allo scheletro di qualche grossa creatura. Il magma rosso e il dispositivo scenico ci ispirano le emozioni viscerali di essere negli abissi di qualcosa.
Lungo il perimetro di un grande tavolo ovale – sovrastato da vele, ancora rosse – corrono trenta postazioni numerate, ognuna con uno schermo rettangolare e uno sgabello, illuminate da una lampadina sospesa. Gli spettatori vengono invitati a prendere posto. In maniera casuale o ciascuno sedotto da una propria numerologia esoterica, prendiamo posto. Qualcuno assicura in chiusura la gabbia come un giostraio con l’ottovolante. Contemporaneamente si accendono tutti gli schermi, una giovane donna con occhi indiani dalla patina liquida mi guarda, dal video, senza parlare. Nello schermo di tutte le postazioni compaiono simultaneamente persone diverse. In un sincronismo millimetrico, come il ronzio di uno sciame di mosche, tutti cominciano a raccontare una storia. È emozionante.
La donna indiana, in un denso racconto, mi parla del momento in cui ha deciso di diventare una suora e di entrare nell’Ashram, dei suoi capelli strappati via con tanto dolore secondo la tradizione induista di investitura; della sua amata consorella che, affetta da un male incurabile, si è affidata al santhara, il digiuno assistito, pratica rituale per porre fine al ciclo della vita. C’è talmente tanto pathos nel suo racconto che mi viene l’istinto di allungare il mio palmo sul dorso della sua mano in un contatto.
Mi dice che nell’incavo del tavolo c’è una busta per me. La apro e mi rendo conto, dal fruscio della carta che si espande in un crescendo improvviso, che ognuno sta aprendo contemporaneamente la propria busta. Su un cartoncino è indicato il percorso da seguire, cinque postazioni in tutto.
Ad attendermi, sul monitor, un uomo di mezza età che mi diverte con strampalate teorie matematiche su come trovare la propria anima gemella. La spettatrice nella postazione accanto alla mia sembra molto interessata a quello che l’uomo di mezza età mi sta raccontando; nel suo video il “personaggio” virtuale è girato verso il mio e sta ascoltando in silenzio quello che ha da dirmi.
L’urlo di un ragazzino proveniente da uno dei monitor ci costringe tutti, spettatori e narratori, a girarci nella sua direzione. Una singolare compresenza di interazioni spaziali e temporali rendono la situazione del tutto simile a un reale convivio; un po’ come origliare la conversazione di quelli del tavolo accanto.
All’ennesimo changez la femme vengo rapita dalla storia filmica di un rappresentante della mafia moscovita della claque. Al Bolshoi, mi dice, molti ballerini pagano dei mafiosi che gli procurano la claque e Dio solo sa che cosa può succedere se non vengono rispettati i patti. Lo sguardo di quell’uomo, così freddamente presente davanti a me, mi provoca ansia.
Intanto, il monitor di uno spettatore sembra essersi rotto; frizza in bianco e nero: il regista corre a intervenire. Mi guardo intorno accorgendomi che tutti gli spettatori e i loro avatar sui monitor sono fermi e guardano verso la scena. Anche il mio. Realtà e finzione si mischiano sul filo di precisissime coincidenze temporali. Stupefacente.
Il punto di connessione fra le trenta storie è la Teoria dei sei gradi di separazione dello scrittore ungherese Frigyes Karinthy, secondo il quale ogni essere umano può essere associato a qualsiasi persona o cosa attraverso non più di cinque intermediari. La teoria viene esposta a tutti, nella quarta postazione, da trenta persone diverse; l’unica storia comune a tutti i video-racconti.
Nella quinta tappa, una ragazza sordomuta mi racconta il silenzio in gesti e sottotitoli. In ultimo, le voci dei soggetti narranti diventano un toccante canto corale che sfuma nel buio di un finale che ci lascia in balìa della incontenibile curiosità di cercare, senza successo, il legame tra le singole storie.
Ma forse la verità è che siamo tutti connessi in questo fazzoletto di terra incastonato nell’universo, dove le sofferenze individuali sono storie di dolore collettivo e le vite di ciascuno inneschi nella storia universale dell’umanità tutta. Dove la parola è un ponte che costruiamo per collegarci agli altri, al mondo interno degli altri. Dove tutto ciò che ci affligge può, con un po’ di coraggio, diventare l’occasione per cambiare il senso della nostra vita. L’occasione per trasformare tutti i draghi del mondo in principesse.
PERHAPS ALL THE DRAGONS
ideazione BERLIN (Bart Baele, Yves Degryse)
soundtrack e mixing Peter Van Laerhoven
scenografia BERLIN, Manu Siebens
testo Kirsten Roosendaal, Yves Degryse, Bart Baele
editing Bart Baele, Yves Degryse, Geert De Vleesschauwer
camera Geert De Vleesschauwer
direzione tecnica Robrecht Ghesquière
produzione e comunicazione Laura Fierens
ricerca e drammaturgia Natalie Schrauwen
produzione BERLIN
Andria – Chiesa Mater Gratiae
5 settembre 2019
Festival Castel dei Mondi, XXIII edizione (4 – 22 settembre 2019)