ILENA AMBROSIO | In una chiesa per un’esperienza del sentire. Con l’udito, a occhi chiusi, percepiamo voci che si avvicinano progressivamente, le vibrazioni del suono ci passano accanto e poi si allontanano; sentiamo le voci spostarsi, collocarsi in vari punti dello spazio, dividersi, ricongiungersi. Intanto con l’animo, a mente spenta, accogliamo le parole e le immagini di una passione che è senza tempo ma ha anche il tempo del qui e ora, di un rituale condiviso con chi ci siede accanto.
È l’esperienza donata dallo Stabat Mater composto da Antonella Talamonti per i cantori di Faber Teater. L’aveva vissuta Leonardo Delfanti (che ha raccontato in dettaglio la creazione) a I Teatri del Sacro; l’ho vissuta anche io, quest’estate, a I Teatri della Cupa, tra le mura di pietra bianca leccese dell’Abbazia di Santa Maria di Cerrate. Un’occasione di condivisione che abbiamo voluto ricambiare condividendone il racconto con Antonella Talamonti e la Compagnia Faber Teater.
Com’è nato il progetto dello Stabat Mater? Da dove l’idea di un lavoro di approfondimento sul tema della Passione?
Lo Stabat nasce sulla scia di Le diciotto ore della Passione, un progetto di Luciano Nattino e Aldo Pasquero di intenso lavoro sul territorio, tra il religioso e il laico. Si trattava di una serie di performance, azioni teatrali, letture, che per diciotto ore consecutive, dalla sera del giovedì al pomeriggio del venerdì santo, coinvolgevano luoghi diversi del Torinese e dell’Astigiano. Aldo mi propose di curare l’evento conclusivo con una creazione specifica. Così colsi l’occasione di approfondire il mio interesse per l’acustica scrivendo uno Stabat apposito per il duomo di Chiavasso.
Cosa intendi per una scrittura musicale realizzata appositamente per un luogo?
Scrivere per un luogo ha significato studiare l’acustica del Duomo, fare il giro delle sue varie zone, centrale, abside, navate laterali, per capire il tipo di risonanze e risposte della chiesa. Ho scelto una serie di testi, liturgici e paraliturgici, appartenenti alla tradizione della Passione e ne ho composto la musica, ma già pensando a dove li avrei collocati e a come avrebbero risuonato, a come la chiesa avrebbe moltiplicato i suoni. Ogni singolo pezzo ha quindi valore per il pensiero drammaturgico globale ma anche per come viene usato lo spazio, per come suona lo spazio.
Per cui la realizzazione del lavoro cambia ogni volta, diventando site specific per ciascuno spazio che scegliete.
Sì, infatti, prima della rappresentazione, abbiamo bisogno di una giornata di lavoro per studiare come risponde la chiesa, capire dove collocheremo i pezzi, quali sono le caratteristiche principali da far emergere. Fino a ora abbiamo incontrato venti spazi con delle risonanze diversissime. L’Abbazia di Cerrate è stato il luogo più secco, quindi con meno risonanza di suono, il che ha reso necessaria la massima proiezione delle voci e il prolungamento le note.
È questo lo specifico della ricerca e dell’interesse, come interagire con un luogo così. Ed è la cosa che mi piace di più.
Sul piano drammaturgico, invece, c’è la volontà di trasmettere il sentimento della Passione; un dolore e una sofferenza, non solo religiosi ma anche laici.
Soprattutto laici. Tutto sta nell’aspetto rituale della performance. Lo straordinario cambiamento di qualità della presenza che c’è nel qui e ora del rito. Il tempo diventa fuori dall’ordinario e accadono delle cose che nella vita quotidiana non hanno luogo. Ho fatto tanti anni di ricerca nei luoghi della Passione, nel centro-sud Italia, seguendo le processioni e vivendone la fatica. Attraverso lo stato di fatica il corpo si trasforma e con esso la percezione; se tu non vivi quello stato il rito non lo vedi, non permetti a te stesso di essere trasformato… Camminare, poi fermarsi, pregare, stare nel canto per ore. Io seguivo le intere processioni proprio per lasciare che la trasformazione avvenisse. Il rito crea un’occasione per le persone di trasformazione e uno spazio per accogliere il dolore. È questo che a me, da agnostica, colpisce del lavoro sulla Passione perché, qualunque posizione si abbia, c’è una settimana l’anno dove il dolore lo puoi condividere e tutti stanno in quella dimensione, ognuno nella propria modalità. E poter condividere e superare il dolore perché in questo siamo tutti uguali lo trovo stupendo.
Attraverso il suono, attraverso il canto che muove il corpo, chi ascolta si trova immerso in un processo di movimento che è anche movimento delle emozioni che compie insieme agli altri. La cosa che ho constatato più spesso è la commozione. E a me interessa questo più della riuscita della performance.
Ho percepito anche un intento quasi terapeutico: offrire la possibilità di un’immersione nei propri dolori, dalla quale si riemerge però sollevati, perché la si compie insieme, sentendosi così meno soli. In questo il vostro Stabat è, più che uno spettacolo un’esperienza, sensoriale ed emotiva.
Esatto. Ciascuno vive il proprio dolore ma lo fa proprio perché è con gli altri; al tempo stesso non c’è nulla che violi la sua intimità. Si crea uno spazio di accoglienza. E poi oramai per me il tema fondamentale è proprio quello della natura della rappresentazione. Lo spettacolo come forma non mi interessa più, mi interessa far accadere delle cose in cui le persone possono prendere qualcosa per sé.
Parliamo ora della compagnia. Faber Teater nasce nel 1997 con, alla base, una dimensione specifica indicata dal suo stesso nome: faber come ‘artigiano’, ‘fabbro’. In che senso e in che modo l’artigianalità ha dato il via alla vostra storia e fa da cifra del vostro percorso di ricerca?
Siamo nati con l’idea guida che il lavoro di un gruppo di teatro è come il lavoro di una bottega artigiana, un lavoro quotidiano in cui la parte creativa ed espressiva va avanti di pari passo con la parte pratica e di perfezionamento tecnico. Il nostro lavoro è molto cambiato negli anni, ma questa idea di partenza è ancora lì. Quello che all’inizio della nostra storia non avevamo chiaro era tutto l’impegno che serve per trasformare questa impresa ideale in una impresa in senso economico, che stia in piedi e ci permetta di vivere. E, credeteci, è una bella impresa!
Nel 2004 l’incontro con Antonella Talamonti. Come è avvenuto, a quale necessità espressiva rispondeva?
All’epoca organizzavamo il festival Teatri di Confine, quell’anno ospitavamo in residenza da noi gli amici del Teatro Due Mondi per la creazione dello spettacolo Oriente. Antonella era con loro e abbiamo potuto “sbirciare” il suo lavoro musicale. Ed è stato amore a prima vista. Il desiderio di cominciare a lavorare con lei rispondeva sicuramente alla necessità di approfondire la ricerca su quello che chiamiamo “attore musicale”; eravamo già attori cantanti, ma senza grande considerazione per la salute delle nostre corde vocali.
Ed è così che è cominciato un percorso su molteplici livelli: la tecnica vocale, l’interpretazione dei pezzi, il canto polifonico, la creazione di un nuovo repertorio, le sonorizzazioni, gli spettacoli, Stabat Mater, Allegro Cantabile… Parallelamente, quello che nel tempo è diventato uno dei cuori pulsanti della nostra vita di gruppo: il lavoro relazionale. Come nel canto polifonico, in cui l’intonazione è un fatto profondamente relazionale, anche nella vita di gruppo l’accordo è dato da un lungo e approfondito lavoro di gestione dei momenti di difficoltà o dei conflitti, dal confronto continuo che richiede la creazione collettiva paritaria, dalla costruzione di un metodo condiviso. Antonella è stata mediatrice di tutto questo.
Antonella ci ha raccontato dei presupposti che l’hanno condotta alla composizione dello Stabat. Voi, da interpreti, come vivete questa sperimentazione delle molteplici manifestazioni del suono? Raccontateci le vostre percezioni anche rispetto ai diversi spazi che di volta in volta abitate.
È un lavoro estremamente affascinante. Nel nostro percorso teatrale abbiamo lavorato spesso fuori dai teatri ma l’attenzione agli spazi era quasi sempre guidata dallo sguardo prima che dall’ascolto. Ora, grazie all’esperienza e alla competenza di Antonella, ci stiamo costruendo una nuova profondità di ascolto. Per usare una metafora culinaria, si tratta di passare dal giudizio “è buono” a esaminare quali sono gli ingredienti di un piatto. Un ascolto analitico delle qualità dell’acustica di uno spazio e insieme un ascolto empatico di quali immagini ed emozioni muove quel certo tipo di suono. Oltretutto un luogo grande come una chiesa spesso contiene più spazi acusticamente differenti. È come se stessimo facendo un corso di sommelier dell’acustica. Un po’ per volta si sta costruendo in noi tutta una nuova sensibilità sonora.
Lo Stabat, dicevamo con Antonella, non è propriamente uno spettacolo, ma un’esperienza di condivisione; condivisione percettiva, certo, ma anche di un momento che ha a che fare con il dolore, che si vive e dal quale, per questo, ci si sente sollevati. Voi, da persone prima che da interpreti, percepite questa dimensione umana e “terapeutica”?
Forse è possibile ragionare “da persone prima che da interpreti” solo in teoria, solo a posteriori… Nel concreto della performance è fondamentale immergersi nell’esperienza, ma inevitabilmente viviamo un’esperienza diversa e in qualche modo parallela a quella dello spettatore, su un altro binario. Come interprete, durante la performance, sei immerso in una molteplicità di livelli diversi: l’emissione vocale, l’interpretazione del testo che stai cantando, i cambiamenti dell’acustica in presenza del pubblico, le piccole variazioni delle voci dei tuoi compagni di lavoro, la partitura per immagini che sta dietro i pezzi. Non ignori il pubblico, ma in quel momento la tua funzione è un’altra. Tu conduci la nave: non ignori i passeggeri, ma la tua esperienza è necessariamente diversa dalla loro. Dice Diderot a proposito del vissuto dell’attore e dello spettatore: «l’attore è stanco, mentre voi siete tristi; perché egli si è agitato senza sentire nulla, mentre voi avete sentito senza agitarvi». C’è una certa dose di cinismo in questo, che non condividiamo, ma crediamo molto alla necessità che i percorsi siano distinti, come sono distinti i ruoli. Crediamo che il nostro sia di costruire uno spazio di condivisione con gli spettatori, ma senza saturarlo dal punto di vista emotivo. Uno spazio che permetta loro di fare un percorso individuale, lasciando la possibilità alle emozioni di sorgere e fluire, senza forzature.
Alla fine dello Stabat, all’uscita dalla chiesa, è sempre emozionante ascoltare i vissuti diversi degli spettatori, c’è chi ti parla del livello acustico, delle sorprese nell’ascolto, chi ti racconta ricordi che gli sono riaffiorati durante lo spettacolo, chi ha le lacrime agli occhi, chi ti parla degli arrangiamenti dei brani… Questo ci corrisponde: creare uno spazio che ognuno possa attraversare nel proprio modo.
STABAT MATER
Faber Teater e Antonella Talamonti
con Lucia Giordano, Marco Andorno, Francesco Micca, Paola Bordignon, Sebastiano Amadio, Lodovico Bordignon
musiche originali e drammaturgia musicale Antonella Talamonti
foto di scena Diego Diaz
organizzazione Chiara Baudino
Il Teatri della Cupa
Abbazia di Santa Maria di Cerrate – Lecce
luglio 2019