GIORGIO FRANCHI | In un famoso sketch de Il Terzo Segreto di Satira, collettivo di videomaker nato a Milano una decina di anni fa, alcuni sostenitori del Partito Democratico si trovano a organizzare la festa di Natale nel comitato di zona. Tra la miriade di intoppi che rallentano i preparativi, l’ostacolo più grande sembra essere un alberello di plastica da addobbare con palline colorate con su le scritte ‘pensioni’, ‘lavoro’ e ‘giovani’: quella più in alto dev’essere ‘pensioni’ o ‘lavoro’? Non sarebbe meglio ‘lavoro – pensioni – giovani’? Cos’è più importante?
L’albero verrà infine brutalizzato in preda all’esasperazione, con la complicità di una sbronza di bukowskiana memoria.
Vuoi per scelta, vuoi per una curiosa coincidenza, la pallina con scritto ‘giovani’ rimane appesa al ramo più basso dell’albero. Il corto è del 2012 ma, sebbene sia passato qualche anno, riflette una questione ancora attualissima: gli under 30 come fascia elettorale a margine della cosa pubblica, nell’occhio del ciclone dell’astensionismo che domina il Paese; tanto che, da qualche anno, ogni barista d’Italia sente quotidianamente gli analisti politici seduti al suo bancone lamentare l’assenza di un partito che “arrivi veramente ai giovani”.
La convinzione più diffusa sembra essere quella che si tratti di un problema di linguaggio, la buona, vecchia incomunicabilità generazionale con il sottofondo di Cat Stevens che segna il confine tra istituzioni e ragazzi. Non a caso il termine ‘arrivare’ (o ‘parlare’) ai giovani. Qualcuno, si ragiona tra un cappuccino e l’altro, dovrebbe trovare la koinè salvifica per la terra di mezzo tra slang e burocratese. Comincia la ricerca di una lingua franca che unisca milioni di persone, come nell’India del ’49 dopo l’indipendenza; e come nel primo caso l’hindi, pronipote del sanscrito, viene standardizzato sul dialetto di Dehli e integrato con inglese e urdu, l’italiano passa attraverso la catena di assemblaggio del nuovo esperanto giovanil-politico, una lingua sintetica e immediata rubata ai social e calata, con strategica prudenza, a poco a poco nella vita di tutti i giorni.
Le pagine di questo nuovo vocabolario sembrano cartoline da un universo post apocalittico, popolato da creature xenomorfe in perenne lotta fra loro: dai post Facebook del segretario Nicola Zingaretti, ottenuti trasfigurando l’esigenza della sintesi nel suo parossismo di telegramma, alla propaganda pentastellata imperniata sull’indignazione popolare e chiusa dal messaggio “Condividi e fai girare”, ormai passato alla storia come l’attestato di qualità della sparata cosmica. I colleghi della destra estrema riescono a intercettare meglio il succo della comunicazione 2.0: un illuminante articolo di Francesco Russo per Agi.it racconta come Salvini e Meloni abbiano imparato dai leader d’oltreoceano a usare l’ambiguità dell’ironia millennial per diluire messaggi controversi per il proprio potenziale elettorato, non ancora deciso a schierarsi con prepotenza. Il ribaltamento avviene, lo confermano i sondaggi e lo sbandierano i diretti interessati. Come insegna Darwin, la specie più rapida a cambiare, anche sul piano linguistico, è quella che sopravvive.
Ma mentre le nuove creature banchettano ancora sui resti dei dinosauri, lo stesso Charles stila il bollettino di guerra e trova una curiosa coincidenza: le percentuali sono tutte cambiate, fuorché quella dell’astensionismo giovanile. Un’intera società ha cambiato il modo di parlare e pensare adeguandosi a una minoranza che rimane muta, quasi a scherno, verrebbe da pensare.
Prima parlavamo dell’hindi. L’hindi si fonda su un sistema di scrittura, chiamato devanagari, composto di sillabe e suoni che sono quasi indistinguibili per chi parte da una qualsiasi lingua occidentale: i suoni छ, ज, च, e झ suonano esattamente allo stesso modo per un italiano, ma per gli indiani sono diversissimi. Per questo motivo, la trascrizione dell’hindi in caratteri latini è estremamente approssimativa e, viceversa, quella di una lingua europea in devanagari. La parola inglese bathroom diventa बाथरूम, qualcosa di simile a baatyàrum(a). La parlata quotidiana hindi incorpora moltissime parole anglosassoni, retaggio della vecchia dominazione politica. Stessi vocaboli, scrittura diversa.
Questo è ciò che è accaduto al politichese dei social. Se la lingua è diventata veloce, aggressiva, sfrontata, le tematiche sono sempre le solite da cent’anni: le intramontabili accise sulla benzina e la pressione fiscale, la TAV ancora ferma mentre la Cina studia i viaggi interplanetari, qualche cameo del sempre ottimo crocefisso nelle scuole, la logorante polemica sulle autonomie regionali. Persino il ponte sullo stretto di Messina ritorna con una ciclicità quasi ritualistica.
Da poco più che ventenne, cosa può importarmi del selfie in aula dei nuovi ministri, quando un’emergenza climatica profetizza la fine del mondo e nessun governo in Italia ha finora dimostrato di essersene reso conto? O dell’ex ministro degli interni che balla sulle note di Rovazzi, quando la parola ‘cultura’ è stata definitivamente depennata dal frasario politico al passaggio del nuovo millennio? E soprattutto, come posso, e come possiamo come generazione, interpretare i tentativi di avvicinamento della politica a una lingua della contemporaneità, se non come un atto di resa nei confronti di essa e del capitalismo globalizzato che ne ha stilato i dettami?
Una lingua non è solo un insieme di parole. È anche lo specchio della mentalità di un popolo, come esemplifica la vecchia storiella dei trenta nomi del groenlandese per la neve. È per questo che quando la lingua e la mentalità corrono su due binari a velocità diverse c’è qualcosa che non quadra: il distacco fra significante e significato si fa baratro e si riempie della terra che ci teneva in superficie.
Se dobbiamo trovare la lingua adeguata all’epoca in cui viviamo, tanto vale procedere a ritroso. Forse tutto il latino studiato al liceo ci tornerà finalmente utile.
Namasté.
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