RENZO FRANCABANDERA e ANDREA ZANGARI | RF: PerAspera è un festival che da oltre un decennio propone un’indagine sui linguaggi delle arti dal vivo disintermediate per la gran parte dalla funzione teatrale strictu sensu. Sarebbe a dire che questo festival è più facile che porti i suoi seguaci fra ville, giardini, parchi, quadrerie antiche, oratori secenteschi, che a poggiare le natiche su qualche poltrona di velluto rosso davanti a un palcoscenico. Ennio Ruffolo, che con passione eterodossa ne cura la direzione artistica, dice che il teatro, per la gran parte, lo annoia. E dunque punta con sempre maggior vigore sulla proposta di esperienze, di creazioni di natura ibrida, avvolgente.
AZ: Se foste, ad esempio, capitati nei pressi delle Serre dei Giardini Margherita fra il 13 e il 15 settembre, potreste aver incontrato coppie aggirarsi un po’ spaesate, brandendo un plico di fogli goffamente compulsato. E magari esserne stati coinvolti in un improbabile dialogo. Si trattava in quel caso di USM – A Unique and Spectacular Moment, perfomance partecipativa di Simon Wilkinson, parte del progetto BRiGHTBLACK. Un’esperienza immersiva nel genere dei “playful media”, che fa il paio con The third day, installazione in VR dell’autore britannico esperibile quest’anno a PerAspera.
RF: Come annunciava – non senza una malcelata soddisfazione – la newsletter, l’ultimo appuntamento del festival – la performance audio video Do humans dream of electric lions? di S.ee + Jody Ellen al Cassero LGBTI Center di via Don Minzoni a Bologna – arrivava non dopo una sfilza di spettacoli teatrali ma dopo un’installazione interattiva basata sulla realtà virtuale [CiRCA69], un intervento partecipativo di land art [Ida Bentinger], un laboratorio aperto di danza /ballo [Anna Albertarelli], una performance [Lorenzo De Simone], un dialogo [Daniele Donati, Marco Mancuso, Flavia Monceri], un’esperienza di sound-art al buio [Francesco Cigana con Marcello Batelli], una performance di danza [Anna Marocco] e un’esperienza immersiva tra virtuale e reale [BriGHTBLACK], proprio quella di cui stavi iniziando a raccontare.
AZ: Sì. Il gioco, infatti, in questo caso ha inizio davanti allo schermo di un pc: nell’ambiente virtuale di un videogioco l’utente è invitato a compiere una manciata di scelte con il click del mouse. Siamo in un notturno domestico, con due personaggi e alcune sagome di animali luminose, simili ad abatjour dal design ricercato, ma in pose surreali come quella di uno squalo nella vasca da bagno. È un sogno virtuale quello da cui USM prende le mosse, per immettere lo spettatore-perfomer nella sospensione della consequenzialità logico-razionale. Un terreno fertile e ben preparato per il secondo momento, quando, seguendo il copione trovato sotto la scrivania, la partecipazione prende la forma di un giocoso dialogo con l’altro sconosciuto partecipante, incontrato dopo una sorta di breve caccia al tesoro, walkie talkie alla mano. Ciò che segue da istruzioni è una serie di domande intime, momenti di riflessione guidata, piccole missioni urbane di interazioni con i passanti, azioni fisiche performate o immaginate. Una partitura ricchissima di possibili momenti di meraviglia nell’incontro (unique, senz’altro, come vuole il titolo) ma troppo esigente nell’imporre un salto continuo fra interiorità e gesto, fra introspezione e condivisione.
In una ventina di pagine i partecipanti trovano condensata la parabola di un possibile lavoro d’attore, da mettere in atto scegliendo se essere se stessi o se fingersi di fronte al partner: un gioco, insomma, che è metafora fin troppo facile della vita. Di fronte a questo vasto orizzonte rischia di perdersi l’intratesto, rievocato fra le battute dall’epifania di un “tasso luminescente” che richiama agli animali luminosi del video. Didascalie della controparte ancestrale-animalesca che continua ad abitarci, sempre più sospinta nel buio luminoso del rimosso, mentre le realtà virtuali si spandono incontrollate?
RF: Poni questioni direi quasi antroposofiche prima ancora che artistiche, alle quali è complesso dare risposta, perché come tutte le azioni che chiedono a un pubblico avventizio e generalista di partecipare a un’azione performativa, il tema dell’accessibilità si pone in modo cruciale, per non risultare discriminante. E quindi a volte si rischia che la drammaturgia abbia delle cadute nel prevedibile, o sia più lenta della perspicacia dei partecipanti. Ma occorre anche dire che li mette comunque nelle condizioni inaspettate di interagire e raccontarsi apertamente, di vivere un’esperienza di ibridazione. E così paradossalmente si passa da una (forse finta) realtà aumentata e virtuale, a una umana, troppo umana narrazione di sé (come in fondo richiama il titolo di questa edizione del festival), di alcuni anfratti intimi, a uno sconosciuto; il quale però, condividendo probabilmente una identica passione per l’arte, per il linguaggio ibrido della performance, ha una qualche probabilità di essere una persona deliziosa, da cui spiace poi alla fine separarsi. Un dispiacere che fa il pari con la surreale ipotesi di un finale con extra terrestri, davvero lontanissimi. Mentre il mio complice anonimo o poco più era diventato presentissimo in quel preciso momento della mia vita, con le sue narrazioni private. Mistero virtual-ferino!
AZ: Lo stesso territorio ibrido di iper-tecnologia e animalità, è il punto di caduta delle suggestioni di Darkness session (expanded), il concerto al buio di Francesco Cigana e Marcello Batelli. Il paesaggio sonoro si spande nello spazio antologico dell’oratorio di San Filippo Neri: la magnifica aula barocca mirabilmente restaurata con una protesi lignea che è essa stessa installazione artistica. A luci spente, però, il capolavoro architettonico è una caverna, in cui la vibrazione ora tempestosa ora ipnotica delle percussioni sembra provenire da più parti. Lo spazio diventa così un enigma, la metafora di un labirinto. Il rintocco senza tempo dei metalli si amplifica e si distorce, ma non si s-natura, nel filtro del dj-set: ancora, ma con maggior pregnanza, c’è una tensione fra strumenti tecnologici e segni ancestrali. Parallelamente, la storicità e l’istituzionalità del monumento sono demolite nel solo gesto di spegnere un interruttore; al loro posto, sopito uno dei sensi, l’udito rintraccia i segni di un tempo in cui lì poteva essere un pascolo, un fiume, una montagna.
RF: Anche io ho seguito il concerto fruito con gli occhi bendati e una lucetta in mano per richiamare l’attenzione in caso di problemi. Mi ero forse perso un paio di righe delle istruzioni, e quindi quando è finita la musica ho iniziato a brancolare nel semi buio della mia mascherina nera, mentre tutti gli altri erano seduti, finché una pietosa assistente mi ha chiesto se volevo essere portato fuori. Lì ho capito che ero andato fuori dalle ipotesi fruitive definite.
E comunque: il concerto è mirabile, e incorpora una parte importante di lavoro sull’improvvisazione che è il terreno di sperimentazione dei maestri all’opera. La prima parte soprattutto – un tumulto di onde, di rinfrangimenti sonori che davano l’idea del mare – ipnotizzava.
Forse uno spiazzamento maggiore dell’origine della fonte sonora avrebbe potuto regalare all’ascoltatore abbuiato un pathos spaziale più ampio. Invece il luogo di origine del suono dopo un po’ tranquillizza: si comprende che lo spazio sonoro agito è delimitato, e quindi si attiva una sorta di relax fruitivo, che come tale ha ovviamente pregi e difetti. Ma si parla comunque di un risultato musicale e compositivo pregevole. In te ha prevalso l’ipnoinducente relax al buio o l’impetuosa dinamica sonora frutto dell’improvvisazione nell’oscurità?
AZ: Come dici tu in un primo momento ha prorotto il ruggito, l’impressione che fra le sedie potesse aggirarsi una bestia; poi lo spazio si è lasciato leggere, le postazioni dei due musicisti sono state geolocalizzate. Si è riscoperta una casa nella caverna. Forse è proprio questo micro-processo che ci racconta una storia, se a una narrazione si vuole arrivare; o addirittura una meta-Storia. L’ontogenesi ricapitola la filogenesi, avrebbe detto qualcuno. Oppure ci si può fermare a quel bouquet emozionale. In ogni caso è impossibile annoiarsi.
RF: Chiudo con la testimonianza di uno dei primi eventi del festival ospitati a Bologna (alcuni avevano già avuto inizio fuori dalla città). Si tratta di VARIAZIONE #1: S. VELATO di Lorenzo De Simone, ambientato in una emozionante saletta della bellissima Quadreria di Via Marsala.
Anche qui un uno “contro” uno.
Un tavolino ricoperto di un leggero strato di argilla fresca sul piano e due sedie, in stile Abramović al MOMA. Il performer, in tuta bianca entra nell’ambiente, sceglie la persona con cui vivere l’esperienza di coreografia tattile, la fa accomodare di fronte a sè, ne poggia le mani sull’argilla, cercandole senza eccessi e poi separandosi dal contatto lieve per sviluppare un piccolo assolo di gesti e tensioni, che culminano nel ritorno verso le mani dell’ospite.
È tutto un impossibile provare a non sporcarsi la tutina bianca, senza riuscirci ovviamente. Le dita di De Simone arano, smuovono lo strato d’argilla, e sveleranno nel finale un’immagine il cui nesso con la dinamica coreografica è tuttavia troppo legato al punto di vista dal quale i guardoni, i non prescelti, “le sorellastre di Cenerentola” disposte lungo le pareti della sala, osservano il principe ammaliare di gesti chi gli sta di fronte, scoprendo l’immagine sul tavolino, prima di andare. Intimo. Piccolo, rinforzabile in alcuni nessi di senso e di individuazione del percorso, sia per chi partecipa che per chi guarda.
BRiGHTBLACK – A UNIQUE AND SPECTACULAR MOMENT
Ideazione e sviluppo: Simon Wilkinson, Myra Appannah
Con il supporto di: National Lottery through Arts Council England
Produzione della versione Italiana: perAspera Festival in collaborazione con Kilowatt
DARKNESS SESSION (EXPANDED)
Idea e progettazione: Francesco Cigana
Performer: Francesco Cigana, Marcello Batelli
VARIAZIONE #1: S. VELATO
Creazione e interpretazione: Lorenzo De Simone
Supporto alla produzione: INCUBATORE C.I.M.D
Occhi esterni: Franca Ferrari, Davide Valrosso, Marco D’Agostin, Daniele Ninarello e Gianluca Cheli
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