RENZO FRANCABANDERA | Che poi, bisogna dirlo, con l’arte dal vivo si imparano un sacco di cose. Libri, testi da cui sono tratte opere e creazioni, rimandi a studi psicologici. Una volta che si entra nel tunnel del teatro e della danza, uscirne è difficile.
Magari ti capita un lavoro ispirato, per esempio a come creare intimità in 45 minuti, per dire. E scopri pure che la cosa, in qualche forma strana, riesce!
Sicuramente le due sorprese più interessanti dell’edizione 2019 del Festival Opera Prima di Rovigo, promosso e diretto da Massimo Munaro e dal Teatro del Lemming, arrivano dal teatro-danza.
Il primo è proprio un lavoro che parte da un presupposto a forte rischio didascalia e di svolgimento pop, e che invece ci sorprende proprio per la capacità di schivare entrambe le evenienze pericolose.
Tema: nel 1977, lo psicologo Arthur Aron, assieme a un gruppo di colleghi ricercatori, pubblicò l’articolo Experimental Generation of Interpersonal Closeness (Creazione sperimentale di intimità interpersonale, qui il pdf dell’articolo in inglese). Nella sua ricerca, Aron raggruppò 36 domande concepite per far dialogare due sconosciuti, cosicché la loro relazione potesse diventare progressivamente sempre più personale. In sostanza lo studio mirava a verificare se esistessero condizioni grazie alle quali fosse possibile creare un contesto artificiale, “da laboratorio”, in cui due sconosciuti potessero legare tra loro e costruire un’amicizia profonda, o addirittura un rapporto romantico, in meno di un’ora. Organizzarono così una serie di esperimenti con alcune coppie di persone che non si conoscevano, e che aveva un protocollo abbastanza definito: due soggetti, scelti fra i volontari, entravano in una stanza vuota, si sedevano di fronte, dovevano rispondere alle 36 domande. Arrivati alla fine del questionario, i due dovevano guardarsi negli occhi per 4 minuti. La durata totale dell’incontro non doveva eccedere i 45 minuti.
Secondo le risultanze dello studio, l’apertura a un’altra persona e il fatto stesso di mettersi in una posizione di vulnerabilità data dalla condivisione del proprio stato emotivo, di alcuni elementi della propria storia personale e dei desideri sul futuro, sviluppa una forte intimità che conduce anche a sentimenti robusti. E così, partendo da domande tipo “Ti piacerebbe essere famoso? Quand’è l’ultima volta che hai cantato tra te e te? E davanti a qualcun altro? Qual è il tuo ricordo peggiore? Hai un rapporto stretto con la tua famiglia?”, si rischia di trovarsi ammogliati in men che non si dica.
La performance Q&A (the 36 questions) di Rachel Erdos danzata e agita da quattro danzatori Matan David, Tomer Giat, Shay Haramaty, Ori Lenkinski (con piccoli inserti e riferimenti con il pubblico) si muove in un ambiente circoscritto, in cui gli spettatori cingono lo spazio su tre dei quattro lati. Interessante la drammaturgia di Nava Zuckerman che attorno alle 36 domande non costruisce una ordinata e schematica lettura ma una coreografia capace di tessere una graduale e non smaccata relazione con il pubblico presente; questo viene così coinvolto progressivamente, senza esagerazione, favorendo anche in questo caso un innamoramento progressivo verso la creazione che, proprio perché non agita su didascalie fisiche o rimandi espliciti alla drammatizzazione delle domande, si fa apprezzare per intensità e vigore del tessuto drammaturgico tanto quanto della azione coreografica.
«Siamo sostanzialmente alla ricerca di connessioni con altre persone – dice la regista – e crediamo che queste 36 domande siano una via per buttare giù le barriere e arrivare a conoscere l’individuo. Se usassimo questo esperimento e queste domande non solo per trovare l’amore, ma anche per una comprensione reciproca e una connessione tra persone sia all’interno della medesima comunità che fra diverse comunità, allora forse potremmo accrescere la comprensione e la tolleranza». Alla fine in sala tutti più o meno si risponde, almeno mentalmente, alle domande, ad alcune con il sorriso, ad altre con il bisogno di qualche bilancio, ad altre ancora con la speranza di riuscire a pensare alla felicità. Un finale intenso, collettivo, che richiama l’azione proposta da Aron a chi partecipava al suo esperimento, per uno spettacolo capace di farsi apprezzare su più livelli. Senza dubbio una delle cose più interessanti di questa edizione. Andrebbe riproposta in Italia.
Intimo seppur proposto in uno spazio aperto, è Ombelichi tenui, creazione elegante e lieve del duo composto da Filippo Porro e Simone Zambelli, e formatosi nel grembo della vigorosa e talentuosa alma mater coreografica Michela Lucenti (pure lei ospite del festival, nella sezione maestri, con il suo Concerto Fisico, un attraversamento delle suggestioni artistiche incontrate nel suo percorso).
Ma torniamo ai due allievi “segnalati” alla direzione artistica dalla maestra, come prevede il protocollo, appunto: partecipano ad Opera Prima alcuni giovani promettenti invitati al Festival su impulso e segnalazione, quasi a immaginare passaggi di testimone, sguardi che individuano scie, seguiti, futuri possibili.
Viene quasi difficile immaginare come queste due anime corporali del sembiante angelicato abbiano avuto casa e ruolo nella travolgente impostazione fisica e coreografica della Lucenti. Vestite da abiti neri, sporchi e trasandati, avviano un concerto muto, un’orazione senza volume, a partire dalla quale prende il via una marcia danzata nello spazio ampio del giardino pubblico, a loro disposizione. Ben presto, come fossero pifferai di Hamelin, trascinano dietro di sé gli spettatori, costretti de facto a una fruizione in movimento, a seguire da vicino l’azione, a portarsi addosso ai due corpi che non risparmiano, da quel momento in poi, un’avvinghiante lotta fra vita e morte, intervallata da un eterno tableau vivant di pietà, l’uno ad accogliere il corpo dell’altro fra le braccia, per poi abbandonarcisi e morirci dentro a propria volta.
Le due anime, compagne di sventura, ombre, si affidano a due corporeità diverse, surrealmente narrative, come le grandi coppie hanno il potenziale di essere già da subito nell’accostarsi dei corpi prima ancora che dei rispettivi linguaggi espressivi: la figura longilinea e regolare nei lineamenti del viso di Filippo Porro, e quella più marcata, indimenticabile di Simone Zambelli, con le sopracciglia intonate ad una maschera triste, da vita vissuta.
Entrambi classe 1992, si sono incontrati all’interno della Compagnia Balletto Civile e Gli Ombelichi Tenui è la loro prima creazione coreografica. Sono attivi, singolarmente, in percorsi ibridi di teatro danza, e riescono in questa coreografia, delicata, sul senso del trapasso, dell’affaccio sul post vita, a sviluppare un tessuto narrativo modulabile, suscettibile di interpretazioni ampie e di reinvenzioni site specific come capita a Rovigo. Nascono così una serie di voci mute che ricordano la tristezza di Keaton, personaggi e movimenti che muoiono come figurini di pongo nel momento stesso in cui la mano infantile che li ha plasmati ne cambia istantaneamente e istintivamente il sembiante.
Il duo rimanda a quel non spazio e non tempo tipici delle grandi dualità sospese del teatro, da Beckett in poi.
Un tragico cabaret è la vita, e così viene da pensare che quello che c’è dopo possa non essere poi così diverso.
Da vedere (lo spettacolo). E da seguire (loro, assolutamente).
Q&A (the 36 questions)
Una performance di Rachel Erdos
Danzatori performer Matan David, Tomer Giat, Shay Haramaty, Ori Lenkinski
drammaturgia Nava Zuckerman
Produzione Shmulik Shalit
Ideazione e coreografia Rachel Erdos
foto Dan ben Ari
GLI OMBELICHI TENUI – ballata per due corpi nell’Aldilà
di e con Filippo Porro e Simone Zambelli
drammaturgia Carlo Galiero
costumi Silvia Dezulian
Foto Francesca Ferrai
Progetto coprodotto da Compagnia Balletto Civile, Festival Resistere e Creare (Teatro della Tosse), Attraversamenti Multipli (RO)
e sostenuto da Teatro comunale San Teodoro (Cantù, CO), Scuola musicale Il Diapason di Trento, Opificio delle Idee (Rovereto).
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