ELENA SCOLARI | Nei complessi parrocchiali della Bretagna (les enclos parroissiaux) c’è sempre un ossario vicino agli ingressi delle chiese, a segnalare un’area in cui convivono vivi e morti. La porta d’accesso all’ossario è detta la “porta della morte”, e qui spesso è raffigurata l’Ankou, un personaggio femminile che rappresenta la morte e la miseria secondo la tradizione celtica. Nel complesso di Thegonnec la signora Ankou guarda il visitatore sopra la scritta/messaggio incisa nella pietra Je vous tue tous ossia “Io vi uccido tutti”.
E allora cosa risponderle? Riderci sopra! Tanto vincerà lei.
Quale rito umano è più antico e longevo dell’esorcizzare la morte? Tanto nella vita quanto nell’arte, espressione umana unica che è appunto una risposta e una reazione alla finitezza secolare di noi tutti.
Quindi tanto vale cercare di morire in allegria, come si vede fare nei due spettacoli-gioiello di teatro di figura e d’oggetti visti lo scorso fine-settimana al neonato festival Nuovi fantasmi organizzato da Campsirago Residenza con la direzione artistica di Riserva Canini: Piccoli suicidi di Giulio Molnar e Solo della Compagnia Walter Broggini.
Cominciare uno spettacolo annunciando il proprio doppio suicidio è un bell’inizio, batte molti incipit a effetto.
Piccoli suicidi è uno spettacolo storico del teatro di figura, inventato da Giulio Molnar e ora passato in eredità alla figlia Olivia, che raccoglie l’ispirazione buffa e un poco demenziale del padre con bravura e precisione di gesti ed espressioni.
In uno spazio per circa trenta persone un personaggio in abiti stazzonati e opachi, sbiaditi come in una vecchia fotografia, si siede a un tavolo illuminato solo da una piccola abat-jour di carta. Poche parole, Olivia muove oggetti mettendo in scena piccole storie a tristo fine: un Alka Seltzer pone fine alla sua vita buttandosi in un bicchiere d’acqua, una morte effervescente che arriva dopo varie gag tra caramelle incartate diffidenti e inclini alle riunioni sindacali che finiranno per indurre “l’intruso” a lasciare il mondo per sempre.
Travolgente la storia d’amore tra lo svedese (un fiammifero) Yor e la brasiliana Pita (un chicco di caffè) che si inseguiranno e corteggeranno in una sequenza articolata, piena di acutissimi colpi di scena – irresistibili anche per la piccolezza del contesto – accompagnati dalle facce e da uno pseudo linguaggio che Olivia Molnar modella su questi mini personaggi, buffissimi.
Si ride molto anche per la passeggiata, letterale, che Olivia fa calpestando la mappa di Budapest, cammina proprio sulla cartina illuminando le strade con una pila; per andare a trovare la zia, che sbuca dal portafoglio ed è una fototessera quadrupla di zia, zia, zia e zia. Del resto quando siamo bambini tutto ci sembra grande e da grandi vediamo le stesse cose come rimpicciolite.
E se fosse più vicina al vero l’impressione d’infanzia? Il tempo adora le noccioline.
Anche le marionette da tavolo di Walter Broggini, mute e tremebonde, danzano – goffamente – intorno alla morte, cercano di beffarla, rimangono invischiate in tentativi fallimentari di sfuggire al destino. Le bellissime marionette bianche (a figura intera e ispirate al bunraku giapponese) fanno una gran fatica a muoversi, si spostano lentamente, soffrono il peso di ciò che sarà e non può non essere. Ciononostante provano a liberarsi, una di loro dalla catenella, graziosa, che “l’uomo in nero” le ha messo durante il sonno. Lo sforzo provocherà la ridicola caduta degli arti: le gambette bianche volano dal tavolo e il diabolico Broggini in guanti neri ridacchia sardonico.
Solo è fatto di una somma di sketches, preannunciati da alcuni stacchi in jazz: l’uomo in nero Broggini posa sul tavolo un grammofono con la sua piccola morte che gira sul disco; a ciò corrispondono gli intermezzi musicali dal vivo di Giorgio Rizzi alle percussioni e Gianni Binaghi al sax che disegnano atmosfere swing e soffondono l’aria intorno alle disavventure di quelle marionette candide, fantasmatiche, che le provano tutte per dribblare il fato cui nessuno può sottrarsi.
Lo humour è nero, certo, ma è appunto humour. Il cigolìo dell’ineluttabilità è presente ma viene attutito dalla leggiadria delle scene in cui gli insuccessi degli umani protagonisti sono comici per la jella esagerata e molto terrena che riconosciamo come nostra da subito.
Solo è un’affettuosa rappresentazione della cocciutaggine umana di fronte a ciò che non può governare, c’è la curiosità di sbirciare cosa contiene una valigia, forse c’è l’illusione di poter fermare il tempo, almeno di guadagnarne un po’!
Se in Piccoli suicidi l’incantesimo è la fusione tra i gesti dell’attrice e l’indipendenza ideale che dà, visibilmente con le sue mani, agli oggetti di cui racconta le storie, in Solo invece il sortilegio sta in come l’animatore insuffla autonomia al personaggio tanto da rendere credibile che egli ne possa veramente essere l’antagonista. Cose che succedono solo in teatro, e c’è da stupirsene ogni volta.
È senz’altro tempo guadagnato alla poesia (che sta tra le cose non dette) e al pensiero divertito quello speso per vedere questi due spettacoli, due piccoli classici, tanto raffinati e cristallini da sfuggire – loro sì – alle sempre più severe regole del tempo, riuscendo a non invecchiare.
PICCOLI SUICIDI
di Giulio Molnar
con Olivia Molnar
SOLO
creazione, allestimento e animazione Walter Broggini
percussioni e sax Giorgio Rizzi e Gianni Binaghi
marionette Walter Broggini ed Elide Bolognini
scenografia, oggetti e accessori di scena Attilio Broggini
Nuovi fantasmi festival – Campsirago (LC)
14 settembre 2019
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