RENZO FRANCABANDERA | Yukio Mishima interpretò il ruolo di Hitler quando, l’anno dopo aver scritto Il mio amico Hitler (1968), il testo andò in scena. Nel 1970 lo scrittore, figura controversa della letteratura asiatica, si suicidò pubblicamente, il giorno dopo aver terminato la sua tetralogia Il mare della fertilità. Di opere teatrali ne aveva scritte una sessantina, e spesso le recitava lui stesso con ruolo da protagonista.
In Italia quest’opera mancava da tempo: la portò in scena nel 1994 al Teatro Nuovo di Napoli Attilio “Tito” Piscitelli, con il contributo di Antonio Latella e Danilo Nigrelli, pochi anni prima di essere brutalmente ucciso in Brasile per una rapina.
È dunque meritoria la decisione del regista Andrea Adriatico di riproporlo, in occasione del Festival dedicato alla cultura giapponese Cuore di Tokio, ospitato a Bologna da Teatri di Vita da agosto a settembre 2019.
Adriatico aveva avuto in passato a che fare con suggestioni teatrali sia su Mishima che sulla figura di Hitler. Quasi al principio dell’esperienza di Teatri di Vita, infatti, ad inizio anni 90, aveva rappresentato una “trilogia della clonazione”, il cui primo spettacolo fu appunto Ferita. Sguardo su una gente dedicato ad Adolf Hitler.
Poco dopo, quando l’iniziativa culturale si stabilì definitivamente nella nuova e più ampia sede nella periferia di Bologna, rappresentò invece Madame de Sade di Mishima. Da una delle scene di questo lavoro, peraltro, il regista realizzò poi il suo primo cortometraggio Anarchie.
Effettivamente Madame de Sade e Il mio amico Hitler erano opere legate, nell’idea del drammaturgo giapponese, il quale per il primo volle pensare solo a personaggi femminili e per il secondo a una storia al maschile.
Le vicende dello spettacolo sono quelle dell’anno 1934, dell’ascesa definitiva al potere di Adolf Hitler, e vengono raccontate in terza persona in un intreccio che vede il Führer (titolo che lui stesso si assegnò per legge in quell’anno, a seguito della morte del presidente del Reich Paul von Hindenburg) agire e portare a termine gli omicidi del suo braccio destro e capo delle Squadre d’Assalto Ernst Röhm, del politico del suo stesso partito Gregor Strasser e arrivare all’accordo con la grande industria tedesca, rappresentata nel testo dall’industriale Gustav Krupp: «un poker di potenti nella Germania del 1934, all’alba della feroce dittatura nazista» come in sintesi vengono descritti nel foglio di sala.
Chi sono queste figure? A metà degli anni ’20 iniziarono i contrasti all’interno del partito nazista sulla strategia politica da adottare per la prosecuzione delle attività. Da un lato Strasser che, per arrivare al Governo, considerava l’idea di una coalizione con altre forze politiche, avvicinandosi ad idee socialiste; dall’altro Hitler convinto di dover agire in solitaria, sia all’interno del partito, di cui voleva l’egemonia, sia all’interno dello scacchiere politico tedesco, ipotizzando una presa di potere senza alleanze, guadagnando il consenso delle classi imprenditoriali, dalle quali avrebbe potuto con facilità ottenere finanziamenti.
Con abile mossa, Hitler offrì a Strasser l’organizzazione e la gestione del partito nel nord del Paese, allontanandolo da Monaco e nominandolo inoltre, nel 1926, capo della propaganda. Ernst Röhm, capo delle Squadre d’Assalto, nel 1925, anche per via di uno scandalo sulla sua omosessualità, rassegnò le dimissioni ed espatriò in Bolivia. Hitler a quel punto costituì un’unità militare, le SS, capitanata da inizio 1929 dalla figura di Heinrich Himmler. Ma a seguito degli effetti disastrosi della crisi del ’29 e dell’aumento dei disoccupati, le tensioni in Germania e nel partito crebbero, con un grande disordine anche fra le milizie, tanto che Hitler assunse personalmente il comando delle SA e, nel 1931, richiamò in patria Röhm, al quale fu tuttavia immediatamente comunicata la decisione di rendere totalmente indipendenti le SS dalle SA; per distinguersi, le prime avrebbero vestito la nuova uniforme nera, in luogo di quella bruna delle SA.
Tre anni dopo Hitler avrebbe completato l’ascesa al potere, epurando fisicamente i suoi nemici interni nella famosa Notte dei lunghi coltelli, (Nacht der langen Messer, ricordata in Germania come Röhm-Putsch, secondo l’espressione coniata dal regime nazista).
Il testo di Mishima si ambienta proprio poco prima della notte della vendetta e inizia con Hitler (un maturo Gianluca Enria) che tiene un discorso al popolo tedesco, durante il quale Krupp e Röhm sono “dietro le quinte” per assistervi. Si parlano e discutono del “bouquet di ferro” che Krupp (Antonio Anzilotti De Nitto) usava metaforicamente per «mettere in moto grandi progressi nella storia umana», come il progetto di trasformare Hitler in un leader. Röhm e Strasser (Francesco Baldi e Giovanni Cordì) sono in dissidio, tanto che Krupp li definisce «cane e gatto».
La scena (disegnata come i costumi di rimando storico da Andrea Barberini, Michela De Nittis, Giovanni Santecchia) inizia al buio, illuminata da alcuni piccoli schermi su cui viene proiettato il comizio e che danno l’idea della grande città in lontananza: invece scopriremo essere tablet tenuti in mano dagli attori, che dialogano nella cancelleria durante il comizio stesso. Bella anche la scatola scenica in legno ispirata ad architetture giapponesi.
Hitler ritorna per avere dai presenti le impressioni sulla reazione della gente al discorso, appartandosi poi con Röhm con toni fintamente amichevoli, ma di fatto segnando la definitiva distanza fra i due.
Qui la scena è ferma, e i due interpreti sono nella stanza in un lungo dialogo a luce fissa. Statica la recitazione, con una gestualità un po’ ridondante. Nessuna variazione di luci.
Nel finale dell’atto Hitler anticipa a Krupp che ha preso le sue decisioni, ma questi gli risponde: «Adolf, non sei ancora all’altezza».
A segnare l’inizio e la fine degli atti, delle frasi estrapolate da Mein Kampf campeggiano sull’immagine disegnata per lo spettacolo, che viene proiettata sul telo antistante una scena visibilmente rialzata.
Capiremo a breve la ragione di ciò.
Il secondo atto si apre, infatti, con un poderoso eye-catcher scenografico: Röhm è nella Cancelleria, intento a fare il bagno in una piscina (vera, in scena, larga diversi metri quadri) per una colazione con il dittatore: gli ricorda i loro anni di lotta per assumere il potere politico; ma il tentativo di avvicinamento riesce solo a parole e ben presto Hitler lo lascerà solo.
A quel punto, nella finzione scenica, a bordo piscina arriva Strasser, che spiega a Röhm (che lo tirerà nella vasca con tutti i suoi vestiti) che occorre stare in guardia e che vanno messe da parte le loro differenze per rimuovere Hitler e continuare la “rivoluzione” tedesca, prima che il dittatore li uccida entrambi.
A un testo già di suo un po’ insistito fin quasi alla didascalia in questa parte, purtroppo non fa seguito una recitazione priva degli stessi vizi, e nemmeno scevra da alcuni fastidiosi inciampi di memoria, che di fatto impediscono anche ai due in scena di dare profondità ai personaggi – nella realtà ultra quarantenni all’epoca, dunque anche distanti per età dei giovani interpreti, che proprio dallo spessore recitativo dovrebbero guadagnare la credibilità che difetta nell’anagrafe.
La regia non gioca qui tutte le possibilità di disvelamento dei doppi fondi scenici e testuali, permettendo la ripetizione di alcuni movimenti che non sviluppano alcuna trasposizione simbolica, giocando i conflitti fondamentalmente sul piano fisico e vocale.
È qui che Röhm si fa beffe di Strasser, rifiuta la sua offerta e proclama la sua lealtà all’ “amico Hitler”, battuta che dà sardonicamente il titolo alla drammaturgia.
Come profetizzato da Strasser, infatti, le SS per ordine di Hitler nella notte fra il 30 giugno e il 1º luglio del 1934, decapitarono i vertici delle SA riuniti nella cittadina di Bad Wiessee con altri oppositori del regime.
Secondo i dati forniti il 13 luglio dallo stesso Cancelliere del Reich, furono assassinate 71 persone, ma si stima che il totale delle vittime fu ben superiore: tra le 150 e 200.
L’atto III ha luogo dopo la Notte dei lunghi coltelli. Hitler e Krupp si incontrano e certificano il nuovo equilibrio di potere, con Krupp che si dice pronto a lasciargli «tutto il potere senza alcuna preoccupazione». Il dittatore, coperto solo di un asciugamano come un imperatore romano, è steso su un lussuoso lettino di pelle, lungo, mentre l’industriale dal volto grigio, gli siede di fianco, quasi in posizione da analista.
A mollo in piscina non più i due ex sodali di partito, ma tre baldi giovani, la nuova burocrazia: restano muti con la loro sola presenza i tre bei fusti a mollo (Francesco Martino, Lorenzo Pacilli, Damiano Pasi).
In alcuni gesti, ben misurati, nel migliore fra i tre atti, sia per interpretazione che per intenzione registica, si rivelano i nuovi equilibri di potere di una nazione che ha saldato i suoi conti interni ed è pronta a dichiarare guerra al mondo. Tornano i tablet in scena a riprendere il volto del Führer, in modalità asincrona, stile Enrico Ghezzi in Fuori orario, per capirci.
Mishima, autore anche controverso per le sue simpatie politiche, sembra qui sottilmente alludere a come non si arrivi ad una dittatura senza il saldarsi, dietro le figure politiche, di interessi strategici economici forti, i veri motori dell’azione criminale, capaci di armare il braccio di questo o quel fantoccio di turno e di fare carne da macello di tutto il resto. L’intenzione espressionista di rimando al codice pittorico dell’epoca, e richiamata anche dal singolare trucco di Enea Bucchi, riporta alla doppiezza dei personaggi, al loro perenne recitare sé e il contrario di sé in ogni momento.
Il mio amico Hitler ha ancora bisogno di un ampio rodaggio per affinare innanzitutto le intenzioni del recitato, e probabilmente anche per consentire i necessari interventi registici, al fine di favorire una lettura ulteriormente dinamica, specie nelle parti in cui il testo si allunga senza particolari vibrazioni: un bisogno dunque di decisioni, anche nette, e di amalgama fra le componenti più stabili dell’impianto scenico.
In fondo è la stessa cosa che spiega Mishima di quanto occorse ottanta anni fa: quando si arriva ai momenti cruciali, serve qualche scelta ferma e un po’ di spietatezza.
Che in queste prime repliche manca.
IL MIO AMICO HITLER
di Yukio Mishima
traduzione Guanda Editore
uno spettacolo di Andrea Adriatico
con Antonio Anzilotti De Nitto, Francesco Baldi, Giovanni Cordì, Gianluca Enria
e con la partecipazione amichevole e straordinaria di Francesco Martino, Lorenzo Pacilli, Damiano Pasi
scene e costumi Andrea Barberini, Michela De Nittis, Giovanni Santecchia
trucco Enea Bucchi
cura e aiuto Saverio Peschechera, Giorgia Brignani
immagine e grafica Daniela Cotti
tecnica Micol Vighi, Mohamed Mouilhi
produzione Teatri di Vita
con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
[…] via Hitler, l’amico che non ti aspetta. Mishima portato in scena da Adriatico — PAC magazine di arte… […]
L’ha ripubblicato su l'eta' della innocenza.