img_8531RENZO FRANCABANDERA | E anche questa edizione è finita! Ma se si deve pensare a cosa sia stato il Festival Opera Prima quest’anno, occorre dire che la prima parola che viene in mente è coraggio.

Siamo a Rovigo dove il Teatro del Lemming ha “sudatamente” ma meritatamente condotto in porto con successo questa quattro-giorni di incontri, spettacoli, passioni, scambi umani. La quindicesima edizione. I multipli di cinque hanno sempre una significanza particolare. Sono soglie che si imprimono, come se completassero qualcosa, scalini dei decenni, e dei secoli. Eppure dietro questa cabala c’è il coraggio di puntare sull’ibridazione dei linguaggi e al contempo di portare avanti la propria idea di scena contemporanea, prendendosi il rischio di dare spazio alle giovani generazioni.

È ad esempio quello che è successo con Angst for der Angst di Welcome Project, una formazione al femminile che il Lemming sostiene da alcuni anni, in un lavoro che intreccia sogni, fiabe della cultura europea, ricordi e filastrocche, poesie e modi di dire, saggi popolari e saggi accademici e che quest’anno ha proposto l’ulteriore atto creativo di un percorso sulla paura.
Oppure è quello che è successo con le opportunità date a due giovanissime compagnie, di presentare a un ampio pubblico il proprio linguaggio, in due esperimenti di venti minuti ciascuno.
Il primo è stato Soglie, creazione di Daniele Cannella e Rossella Guidotti, un tentativo di coniugare la potente cifra musicale di lui con il codice del teatro affidato eminentemente a lei. Questo primo studio tenta di evocare uno spazio metaforico, e si compone di una successione di ambienti creati dalla relazione tra buio e luce, silenzio e suono; brevi quadri che si susseguono intervallati proprio dall’oscurità.
Forse l’indagine sul teatro di parola rischia di essere un sentiero un po’ impervio e scivoloso, mentre ci permettiamo di suggerire qualche esperimento sul teatro di figura, che potrebbe riservare interessantissime sorprese. Il musicista è invero notevolissimo.
Il secondo è Muta, di Arianna Aragno artista che sta cercando il suo linguaggio, vocato apparentemente al teatro fisico, in prossimità con le poetiche di Cesare Ronconi, Lucia Palladino, Mariangela Gualtieri, Leonardo Capuano, João Fiadeiro, Philipp Gehmacher fra gli altri. Una sorta di trasformazione dell’identità, una crisalide che nasce, un lavoro sull’impossibilità di parlare bene, che diventa caduta verso la comprensione e la compassione verso il corpo che non sa. Una coraggiosa tensione all’esposizione fino alla nudità del sè, che ancora deve maturare tutto il coraggio della performer e il proprio stile, “la propria cattiveria”. Ma in fondo non è ricerca agevole per chicchessia, e a cui auguriamo ogni bellezza, con una strada che porti alla scoperta di sé, prima di tutto.

Ma Opera Prima è anche e soprattutto la tenacia di continuare i propri esperimenti, sapendo che nulla nell’arte si pianta una sola volta, ma che il seme va accudito e continuato a innaffiare, finché la pianta non diventa robusta. Ed è per esempio quello che è successo con il lavoro sulla memoria collettiva iniziato l’anno scorso e proseguito quest’anno con MOMEC.

Nell’edizione 2018 il gruppo di lavoro sospinto dalla creatività di Mario Previato aveva iniziato ad approfondire il tema dei luoghi e delle persone della città, in una installazione che metteva al centro proprio Rovigo. Quest’anno l’indagine è passata in un primo momento sugli oggetti, i ricordi chiusi in un cassetto, legati a ricordi intensi e che spesso restano silenti per poi spuntare improvvisi. Da una prima installazione è nata l’idea poi di un rito, di un incontro, che ha rivelato una potenza inaspettata e si è concretizzato come uno dei momenti simbolici più alti dell’esperienza del festival. MOMEC ha chiesto alle persone che sentivano di poterlo fare, di donare un proprio oggetto caro ad un’altra persona, unitamente al ricordo di ciò che lo rendeva davvero unico. Vedere generazioni della città scambiarsi oggetti densi di memoria familiare, di passaggi umani, con le lacrime agli occhi, liberandosi a volte anche di un peso, di un “fardello” di memoria, ma consegnando ad altri con fiducia il testimone, è stato uno degli eventi forse cruciali di Opera Prima 2019.
Si può parlare in questo caso di momento artistico? O di momento umano? Sarebbe mai accaduto senza il pensiero dell’artista? Qualcuno lo avrebbe fatto spontaneamente? Ne dubitiamo.
Invece quell’istante resterà scolpito per sempre nella memoria di chi vi ha dato luogo.

E forse era giusto che dopo questo sentire così forte ne arrivasse uno collettivo, allegro, leggero. Ma che la piazza centrale del capoluogo di provincia veneto fosse invasa da musicisti e tamburi africani e che famiglie e bambini si mettessero a ballare con loro, assieme, nell’unisono del ritmo, beh questo è meno scontato di questi tempi. 
Ed è successo: parliamo di Bo.Ro.Fra,
 una performance di percussioni e danze africane, che nasce in un progetto nei centri di accoglienza della Cooperativa Sociale Porto Alegre. Ospiti, operatori e cittadini guidati da Alseny Bangoura, artista guineiano, danno vita tutti insieme a uno spettacolo che davvero coinvolge con ritmo, movimenti, colori e in cui restare semplici spettatori è praticamente IMPOSSIBILE. Fosse pure per riflesso condizionato, qualche parte del corpo inizia a muoversi da sola. Veramente impossibile stare fermi. Delirio poi fra i bambini chiamati ad eseguire un tema percussivo alla fine della performance, dimostrando davvero che con una buona guida si può raggiungere un intento unisono molto potente. Nessuna barriera, grande bellezza. 

La stessa con cui si è concluso il festival, affidandosi per la seconda volta alle parole di Mariangela Gualtieri. L’anno scorso era stato per merito di Roberto Latini che le recitava, mentre quest’anno sotto le torri di Rovigo ad interpretarle è stata proprio lei, che sotto la direzione di Cesare Ronconi (il miglior regista del mondo come lo definisce lei, oltre che suo compagno di vita) ha declamato in una piazza racchiusa in religioso silenzio i suoi versi. La Gualtieri definisce Nostalgia delle cose impossibili un rito sonoro. E ovviamente la potenza fascinatoria delle liriche, offerte agli spettatori con la potenza delle pause, dell’enfasi, del riflettere e riflettersi che solo chi li ha scritti può offrire, beh è davvero un privilegio assoluto.
D’altronde la Gualtieri è nata come attrice, e poi proprio grazie a Ronconi, come ha ricordato nella conversazione mattutina, ha trovato la sua strada verso la parola poetica. Ecco quindi che Opera Prima pare proprio voler spingere a questa continua ricerca della propria strada. Un Festival che cresce anno dopo anno e che è capace di interrogarci con la sua proposta artistica.
Cosa siamo profondamente? Cosa vogliamo essere nel nostro mondo e in questo tempo?

SOGGETTI COMUNI installazione
da un’idea di Mario Previato
con l’aiuto di Fiorella Tommasini, Angela Tosatto, Antonia Bertagnon, Silvia Cova, Nadia Poletti, Giuseppe Ferrara.
assistenza tecnica Alessio Papa.
video Manuel Perini, Salvatore Restivo.
musiche Massimo Munaro, Paolo Brusò
si ringrazia Scavezzon Biciclette
produzione Festival Opera Prima

SOGLIE – primo studio
con e a cura di Rossela Guidotti e Daniele Cannella

MUTA – primo studio
di e con Arianna Aragno

BO.RO.FRA.
con Alseny Bangoura e i musicisti e i danzatori del Progetto Bo.Ro.Fra.

NOSTALGIA DELLE COSE IMPOSSIBILI

rito sonoro di e con Mariangela Gualtieri
con la guida di
Cesare Ronconi
cura e ufficio stampa
Lorella Barlaam
produzione
Teatro Valdoca