ELENA SCOLARI | Il realismo è sovrano. O il sovranismo è reale? Un po’ tutte e due le cose, potremmo dire, magari in ambiti e luoghi diversi. Negli ultimi anni in teatro la cronaca è entrata di forza, rumorosamente (più all’estero che in Italia, paese che rimane forse più legato alla poetizzazione del reale), così come i modelli di spettacoli politici, dai piccoli parlamenti catalani di Roger Bernat, ai giochi sull’economia europea dei belgi Ontroerend Goed, ai modellini di fatti accaduti di Agrupaciòn Serrano (ancora catalani), fino alle ricostruzioni di processi come in Terror di Von Schirach per non dire delle ricostruzioni “tridimensionali” di Milo Rau.
Ma perché proprio in questo tempo si moltiplica un fiorire di lavori teatrali, i più diversi tra loro per stile, ma tutti con la matrice comune del fatto di cronaca che fa scaturire lo spettacolo, o della precisa volontà di “portare la realtà” in teatro e farla irrompere dentro le sale? Io credo che sia (non sarò senz’altro la prima a sostenerlo) il bisogno di capire.
Sappiamo molte cose, più di quanto potessero dire i nostri più vicini antenati, ma non abbastanza per raccapezzarci, per muoverci con la sufficiente consapevolezza in un’esistenza complessa, dove i problemi sono costituiti da più livelli, dove anche le soluzioni sono multiple. E allora arriva l’arte. Qui si parla di teatro ma questo tipo di spettacoli spesso ne travalica la definizione, sfiorando il documentario, il gioco di ruolo, la performance, l’happening.
Riprodurre la realtà in scena può aiutare a penetrarla meglio, a trovare una prospettiva che, senza il filtro della creazione artistica, sarebbe rimasta nel nostro angolo cieco.
Io vado a teatro per capire qualcosa più di me, e quindi del paese, del mondo in cui vivo e delle altre persone, specialmente quelle che sento più lontane. Chi il teatro lo fa ha probabilmente lo stesso obiettivo, o meglio lo stesso desiderio.
Le interessanti scelte artistiche di Paola Tripoli per il FIT Festival Festival Internazionale del teatro e della scena contemporanea 2019, tenutosi nel lussuosissimo e trasparente LAC in fronte al lago di Lugano, sembrano andare in questa direzione, e cioè mostrare diversi modi (teatrali ma anche cinematografici o documentaristici) di rappresentare il reale, in particolare le situazioni di certi paesi, anche analizzando il passato: i Rimini Protokoll con la loro Cuba a sessant’anni dalla Rivoluzione; Lola Arìas sulla guerra delle Falklands tra Argentina e Gran Bretagna; il film di Milo Rau sul Congo; Palestina e Israele con i Winter Family; la vita in Corea nel lavoro di Jaha Koo.
Il lupo che si aggira tra le macerie nella grafica della locandina sta cercando un bandolo tanto quanto noi.
La spiegazione di un gesto singolo, simbolo di molti altri gesti e di una temperie generale è ciò che sta alla base di Imitation of life (il titolo è una dichiarazione d’intenti meno diretta di quello che sembra) di Proton Theatre per la regia di Kornél Mundruczó con testo di Kata Wéber, dall’Ungheria.
Lo spettacolo comincia con un video, siamo un po’ stufi dei video in teatro? Mah, dipende dall’utilizzo e dal risultato. In questo caso si tratta della ripresa in diretta di ciò che avviene sulla scena ma che noi non vediamo perché dietro un telo scuro ancora non sollevato; non lo si capisce subito e anche questo è un punto a favore.
Si sta svolgendo un’accesa discussione tra una donna anziana, rom, vestita di nero e con aspetto stanco, (Lili Monori, bravissima, è una star del cinema in Ungheria e non solo, ha girato più di sessanta film) ripresa fissa in primo piano, e il liquidatore di una società che assegna alloggi popolari (Roland Rábab, goffo nel compiere un dovere odioso). L’uomo la sta sfrattando dalla modestissima casa in cui vive – di cui si intravedono le finestre e un fustino di detersivo sul fondo – ma la signora è agguerrita, puntigliosa, niente affatto sprovveduta e combatte. Combatte raccontando al burocrate l’infanzia dura vissuta con il nonno che la crebbe in un quartiere poverissimo di Budapest; gli racconta di quando nell’ufficio del Comune di Budapest, incinta, convinse il funzionario di turno a darle una casa decorosa fingendo (con l’orina) che le si fossero rotte le acque in quel momento; gli racconta che il marito è morto tre giorni prima schiacciato da un treno mentre rincorreva l’oca da cucinare per una cena speciale.
È già troppo per gli spettatori sensibili? Non è tutto: la donna racconta anche di aver fermato suo figlio che cercava di sbiancarsi la pelle con l’ammoniaca perché rinnegava il suo essere rom e ora è sparito, non sa che il padre è morto e pare si prostituisca in un hotel. Ecco.
Tutta questa insopportabile mole di dolore e sventura passa come vera sul volto di Lili Molori, man mano più affannata (è pure cardiopatica), triste ma non disperata, sicura dei suoi diritti e forte di essersela sempre cavata, una faccia e una voce rabbiose, non in cerca di commiserazione: tutto quel racconto dice che non sarà certo una bolletta non pagata a piegarla.
Quello che arriva ora non è esattamente un respiro di sollievo ma almeno un’apertura. Si apre il sipario sulla vera scena, la suddetta modestissima casa, di fronte a un malore della signora nemmeno lo sbrigativo liquidatore (la società per cui lavora si chiama Liquid S.p.A.) si sente di lasciarla sola. Assurda e tremenda la sua telefonata al Pronto Intervento che non potrà arrivare prima di 75 minuti perché «prima i cittadini dei quartieri del centro; se muoiono quelli, i veri ungheresi spariranno».
Non vorrei togliere la sorpresa a chi vedrà lo spettacolo in altre occasioni e diffido pertanto questi ultimi dal continuare a leggere, ma per tutti gli altri non posso non descrivere l’idea registica letteralmente “rivoluzionaria” di Mundruczó. La scena è un cubo, un po’ sollevato dal palco vero e proprio, una scatola aperta su un lato che mostra l’interno della casa. Quando i primi due personaggi ne sono usciti comincia a ruotare, tutto il cubo gira su se stesso, lentamente, sovvertendo l’ordine e mostrando la “gravità”, fisica e della situazione: gli oggetti cominciano a cadere, i mobili rovinano come nella centrifuga di una lavatrice (e ce ne sono tre sul fondo che pure cadono), le cose si rompono, precipitano; tavoli, libri, forni a microonde, abat-jour; i divani si aprono e rovesciano il contenuto, il frigo vomita bottiglie e tupper, i pensili sputano le stoviglie, in un frastuono rovinoso e caotico. Niente male, eh? Il cubo di questa vita scombinata completa la sua rivoluzione lasciando la stanza come il campo di battaglia dell’esistenza.
Il seguito di Imitation of life ci fa conoscere (in modo n po’ spiccio, per la verità, rispetto a quanto abbiamo capito della madre) la nuova inquilina di questa abitazione/discarica (Annamària Làng, nervosa e ironica), il suo bambino (Dáriusz Kozma, disilluso e compunto) e anche il figlio della signora rom (Zsombor Jéger, biondissimo), nel frattempo deceduta. Non vediamo l’epilogo del fatto di cronaca che ha dato lo spunto per questo spettacolo, e cioè l’omicidio avvenuto nella capitale ungherese nel 2015 a opera di un rom contro un altro rom, nel tentativo tragico di annientare un’appartenenza troppo pesante, in un paese come l’Ungheria.
La lotta fra il rifiuto delle proprie origini e il coraggio di portarle, la faticosa ricerca di un’identità che si possa costruire trascurando le radici sono i pensieri che restano, sulle note di Feeling good (Nina Simone): «è una nuova alba, un nuovo giorno, una nuova vita per me, e mi sento bene».
IMITATION OF LIFE
regia Kornél Mundruczó /Proton Theatre
scritto da Kata Wéber
interpreti Lili Monori, Roland Rába, Annamária Láng, Zsombor Jéger, Dáriusz Kozma
scene Márton Ágh
costumi Márton Ágh, Melinda Domán
luci András Éltető
drammaturgia Soma Boronkay
musica Asher Goldschmidt
assistente alla regia Anna Fehér
produttore Dóra Büki
produzione Wiener Festwochen, Vienna, Austria; Theater Oberhausen, Germany; La Rose des Vents, Lille, France; Maillon, Théâtre de Strasbourg / Scène européenne, France; Trafó House of Contemporary Arts, Budapest, Hungary; HAU Hebbel am Ufer, Berlin, Germany; HELLERAU – European Center for the Arts, Dresden, Germany; Wiesbaden Biennale, Germany
FIT Festival | LAC Lugano
3 ottobre 2019