MARIA FRANCESCA GERMANO | Si guarda spesso le unghie chiuse sui palmi Milo Rau; con la mano destra gioca con le unghie della mano sinistra, tradendo la svizzera inclinazione a un’ansia di precisione; i suoi intensi occhi verdi, mai fissi, senza sosta inseguono ogni genere di percezione visiva. Tra i polsini della camicia di lino bluette, lasciati aperti come in una smania di libertà, spicca un impegnativo braccialetto di gomma giallo con la scritta nera “Giustizia per Taranto”; indossa pantaloni grigi da lavoro oversize e scarpe sportive scure.
I tratti del viso sovente contratti in un cipiglio gli rendono una espressione severa che a tratti svanisce semplicemente dietro un sorriso infantile, genuino, contagioso.
Lo stesso sorriso gentile con cui spiega ai passanti e ai turisti incuriositi di essere un regista che sta girando un film su Gesù, con cui li invita ad assistere alle riprese, a partecipare al corteo in ingresso a Gerusalemme; a decidere tra Gesù e Barabba nel processo davanti a Ponzio Pilato; a liberare, per l’occasione, gli istinti razzisti che forse si annidano tra i grovigli profondi della coscienza.
A Matera, Milo Rau, con Il Nuovo Vangelo, prendendo spunto da Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, prova a tornare alle radici del Nuovo Testamento, attualizzando il messaggio salvifico di Cristo, nell’era della Realpolitik dell’Unione Europea e della globalizzazione dell’indifferenza; mette in scena la Passione di Cristo come passione di una intera società: la società degli ultimi, degli oppressi, dei poveri, dei naufraghi del Mediterraneo, dei rifugiati e dei nuovi schiavi. Di una umanità dolente ai margini della civiltà.
Avvia una vera e propria campagna politica: la Rivolta della Dignità, un movimento che lotta per i diritti dei migranti contro la barbarie del caporalato nei campi di pomodoro del Meridione e che combatte per un mondo più equo e più umano contro lo sfruttamento globale. Accogliendo la sfida di Matera 2019, sviluppa un rivoluzionario progetto cinematografico politico e performativo.
Le fasi partecipate e cruciali di realizzazione sono le riprese in pubblico degli episodi corali e drammatici della vita di Gesù: l’ingresso a Gerusalemme, la condanna e la Passione, la Crocifissione. Progetto che si concluderà a Roma al Teatro Argentina con la Resurrezione – in assemblea politica – e al Transeuropa Festival di Palermo con il congresso sulla prima missione.
Gesù è nero ed è l’attivista camerunense Yvan Sagnet, promotore del primo sciopero dei braccianti stranieri in Puglia nel 2011 e della prima filiera etica in Italia, contro il caporalato, di prodotti contrassegnati dal bollettino “NoCap”; i suoi discepoli e seguaci sono migranti provenienti dai diversi ghetti intorno a Matera, sono rifugiati e poveri Cristi fuggiti dai campi libici. Cristiani, musulmani, ebrei, atei ed europei. Insieme a loro e a tanti altri attori non professionisti – come sempre accade nelle opere di Milo Rau, l’artista più discusso e controverso della scena europea contemporanea – recitano, tra gli altri: Maia Morgestern (la Santa Maria di Mel Gibson), Enrique Irazoqui (il Gesù di Pasolini), Marcello Fonte; il sacerdote eritreo Mussie Zerai, impegnato in attività di salvataggio dei migranti nel Mar Mediterraneo, interpreta il ruolo di Giuseppe d’Arimatea.
A Matera, tra i suoi vicoli in salita, i sagrati di pietra assolati, le case millenarie scavate nelle grotte, i cunicoli ipogei e le distese aride e ventose delle dorsali murgiane, partecipiamo ad alcune riprese della Passione del Cristo nero.
Ci mischiamo ai componenti della troupe; seguiamo Milo Rau da vicino. Si accende sigarette con una gestualità di chi non è abituato a farlo. Stringe le mani di chi incontra, ripete i loro nomi come a voler lasciar traccia degli altri dentro di sé. Mi viene in mente che giorni fa, in un incontro organizzato per la presentazione del progetto, qualcuno ci aveva presentati e lui in un denso inglese tedesco aveva ripetuto il mio nome «Francesca? Nice to meet you, Francesca». Mi aveva colpito la sua costante attenzione agli Altri, il suo mettersi continuamente in ascolto.
Sul set qualcuno si chiede che origini abbia. Ricordo di aver letto da qualche parte una intervista in cui rispondendo alla domanda se fosse credente o ateo aveva riportato un aneddoto: «I miei genitori hanno origini italiane e gli italiani, si sa, o sono cattolici o sono comunisti».
C’è forse la possibilità di intervistarlo, dopo le riprese della Crocifissione. Penso emozionata alle domande che mi piacerebbe fargli. Ripasso con memoria fotografica dettagli del suo libro, Realismo Globale edito da Cue Press, cotto e mangiato bramosamente in una manciata di ore.
Ma si fa tardi; sul ‘Golgota’, su cui svettano, come inermi fantocci, tre corpi martoriati sulla croce, spira il vento freddo del tramonto. La possibilità di intervistarlo si affievolisce e inciampo nella mia arrendevole riservatezza.
Penso alla mia intervista mancata. Nel film di Pasolini, tra i titoli iniziali, (belli i titoli all’inizio, semplificano l’incontro; predispongono a una fruizione non cannibalistica dell’arte), scorre la dedica a Giovanni XXIII: gli avrei forse chiesto che ruolo avrebbe dato a papa Francesco nel suo progetto rivoluzionario. Nel suo Vangelo degli ultimi. Aveva provato a contattarlo, a parlargli del suo progetto?
Gli avrei chiesto quanto fosse stato toccato e condizionato dall’idea di avere come traccia drammaturgica quella che per milioni di persone è la parola del Dio vivente.
Se, anche abbandonando fumisterie metafisiche, riconoscesse il carattere salvifico della storia teologica per il suo valore di segno; la Scrittura come stimolo e sorgente di impegno esistenziale per la giustizia e la libertà degli oppressi.
Gli avrei chiesto di realtà non rappresentabili o rappresentazioni incapaci di divenire reali.
Cosa lo appassiona degli esseri umani per i quali prova così tanta empatia, che cosa lo disturba? Come combatte con la sua parte buia quando nel dibattito interiore si ritrova anch’egli colpevole? Come supera le incoerenze della sua Arte e tutte le sue contraddizioni? Come mette a tacere l’ansia di fallimento che traspare dalla sua mimica?
Ripenso a un passo del suo libro, in cui, in risposta a Bossart che gli chiedeva cosa volesse dire, al giorno d’oggi, pensare e agire al passo con i tempi in quanto filosofo, politico e artista, Milo Rau replicava:
Per me significa essere contemporaneamente cronista e portatore di utopie: rappresentare l’oscurità specifica del mio tempo – e la mia personale –, con molta indulgenza, ma anche con molto sprezzo di me stesso e con una grande rabbia per i limiti del mio spirito. Significa anche, però, pretendere con insistenza che lo stato delle cose migliori e divenga più umano. Penso che per certi versi assomigliamo agli umanisti dell’inizio dell’età moderna: siamo ancora immersi fino ai fianchi nel Medioevo, nei «secoli bui del capitalismo», ovvero in quella che Jean Ziegler ha chiamato la «preistoria dell’umano»; ma accogliendo il passato e sottolineando i fallimenti degli uomini, guardiamo anche al futuro. Ed è questa intuizione del futuro che ci ispira e ci anima.
IL NUOVO VANGELO
testo e regia Milo Rau
produttori Arne Birkenstock, Olivier Zobrist, Sebastian Lemke
drammaturgia e ricerca Eva-Maria Bertschy
allestimentio Anton Lukas
camera Thomas Eirich-Schneider
suono Marco Teufen
aiuto regista Giacomo Bisordi
direttore di produzione Elisa Calosi
Matera, 5-6 ottobre 2019
La performance è una co-produzione di IIPM- International Institute of Political Murder con Fondaione Matera Basilicata 2019, Teatro di Roma – Teatro Nazionale e NTGent in collaborazione con Teatri Uniti di Basilicata, FRUITMARKET e Langfilm.
Il progetto cinematografico è una produzione FRUITMARKET e Langfilm in co-produzione con SRF SSR, ZDF in collaborazione con Arte, IIPM, Fondazione Matera Basilicata 2019, Consorzio Teatri Uniti di Basilicata e Teatro di Roma- Teatro Nazionale.