RENZO FRANCABANDERA | Ha debuttato ieri, 9 ottobre, in prima nazionale al Teatro Nazionale di Genova (repliche fino al 12 ottobre) The Global City il nuovo lavoro di Instabili Vaganti co-prodotto dal Teatro Nazionale di Genova, El Florencio e Festival FIDAE 2019 Uruguay . Un progetto vincitore del bando Per Chi Crea promosso dal Mibac e gestito da SIAE.
PAC l’aveva presentato pochi giorni fa ma cosa c’è dietro questo lavoro? Qual è il collante artistico, performativo ma anche umano che Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola hanno utilizzato per riunire il loro “girovagare” per il mondo nello spazio di una ipotetica ma concretissima città globale? La formula che ha permesso loro di contemplare in quella globalità la variopinta diversità delle culture incontrate, dei nuovi linguaggi appresi, degli spazi che resistono – consapevolmente e non – al livellamento culturale in atto?
Glielo abbiamo chiesto; abbiamo chiesto a loro di fornirci le chiavi per aprire/leggere questa global city. Così ci ha risposto Nicola Pianzola.
Questo debutto arriva come esito di un progetto davvero globale di attraversamenti. Il globo è raccontabile in forma sintetico-simbolica?
Il globo è raccontabile perché è attraversabile, e il racconto che ne facciamo scaturisce proprio da questo processo di attraversamento, che ci ha catapultato nelle sue maggiori megalopoli, nei suoi centri nevralgici, dove si concentrano le tendenze e i cambiamenti e dove si manifestano i contrasti che caratterizzano il nostro “little, little world”, per citare un passaggio del testo. Abbiamo visto scorrere la pellicola di questa macro esperienza sotto una lente distopica. Non possiamo certo sintetizzare il globo in poco più di un’ora di spettacolo, né rendere la poliedrica visione del mondo solo attraverso i nostri ricordi e le nostre esperienze. Possiamo però regalare dei glimpses, degli scorci di mondo, dei punti di vista o, meglio, punti che hanno catturato la nostra vista, attivato i nostri sensi, nella speranza di attivare in maniera empatica altre cartoline di città, altri ricordi, racchiusi negli spettatori o in chi ascolta il racconto di questo lungo viaggio. Ciascuno conserva nella propria memoria le sue città, virtuali o reali che siano, visibili o invisibili. La nostra mappa del mondo non è fedele, è stata disegnata tracciando i luoghi che abbiamo attraversato, come la prime mappe abbozzate da avventurieri e naviganti. The Global city è la mappa di Instabili Vaganti, è il nostro piccolo globo.
L’aggettivo globale, così usato, nasconde anche il pericolo di sfumare nell’eccesso di sintesi. Come si fa a raccontare il globale riconoscendo allo specifico delle identità un suo ruolo, una sua dignità?
Ci immergiamo nel globale alla ricerca del glocale, del particolare, delle identità sommerse, di ciò che resiste al livellamento. La città globale è nella nostra personale visione il luogo dove convivono specifiche identità, dove nascono comunità, microcittà nella città, dove riconosciamo situazioni e personaggi incontrati in tutte le città in cui siamo stati.
Il progetto di ricerca Megalopolis, all’interno del quale è nato lo spettacolo The Global City, è stato in questi anni un occhio puntato sul mondo. La nostra attenzione si è concentrata proprio sul rapporto fra tradizione e innovazione, identità e standardizzazione. Delle megalopoli attraversate ci colpiscono quelle immagini contrastanti legate alla resistenza o sopravvivenza della tradizione, della ritualità di fronte alle dinamiche di un mondo globalizzato, al quale possiamo ormai accedere anche dai villaggi più remoti incollando lo sguardo allo schermo di uno smartphone: un tempietto in pietra risparmiato nella sua sacralità dalle corsie di una superstrada trafficata in India o in Nepal, i venditori ambulanti che con il loro carretto attraversano le arterie luccicanti delle megalopoli cinesi, le danze tradizionali nelle piazze coreane. Se da un lato a volte ci siamo posti critici nei confronti della globalizzazione, dall’altro dobbiamo ammettere che grazie al globale abbiamo conosciuto il particolare, poiché è solo grazie a una comunicazione e una mobilità cresciute in maniera esponenziale, che siamo venuti in contatto con universi sommersi, lontani nel tempo e nello spazio.
Esiste una ritualità del contemporaneo o la parola rito è qualcosa per indagare la quale occorre volgere lo sguardo indietro?
Al principio del nostro lavoro come nucleo artistico, siamo andati alla ricerca di una ritualità che non avvertivamo nell’epoca che ci troviamo ad attraversare. Ne sentivamo la mancanza, forse una mancanza antropologica. Credo che stessimo cercando la ritualità nello stesso atto teatrale, una ritualità del nostro teatro. La nostra ricerca quotidiana era quasi un processo per prepararci a compiere un rito di fronte allo spettatore. È proprio da questa ricerca, da questa attualizzazione dellE tradizioni performative, che è nato il progetto Stracci della memoria e lo spettacolo Il Rito.
Grazie a questa indagine ora avvertiamo e ritroviamo la ritualità anche nel contemporaneo, e molte scene urbane catturate nella megalopoli hanno qualcosa sacrale, anche se non legate a pratiche religiose. L’incremento della comunicazione globale attraverso i social network sta generando uno spazio rituale virtuale, innescando una nuova forma di partecipazione, svincolata dal corpo e dalla presenza fisica in un luogo; collettiva ma allo stesso tempo alienante. Siamo portati a guardare il rito come qualcosa che sopravvive a questi cambiamenti e ad andare a rintracciarne i segni in luoghi remoti e più isolati mentre avanza una ritualità del contemporaneo, ancora poco definita. Il simbolo rituale diventa un hashtag, una porta verso la realtà aumentata. Forse occorre ancora volgere lo sguardo al passato per proiettarci nel futuro.
Che idea di spettacolo dal vivo ha in questo momento Instabili Vaganti? Di quale codice vi fate interpreti?
Sicuramente di una commistione di codici. Siamo in un momento che riflette molto la città globale/virtuale che evochiamo nello spettacolo, una fase in cui cerchiamo di assorbire tutti i nuovi stimoli che derivano dalla moltiplicazione dei mezzi espressivi dell’epoca in cui viviamo, e di tradurli in una scrittura drammaturgica sinestetica.
Video mapping su diverse superfici proiettabili e sui corpi dei performer, tappeti sonori che diventano brani originali cantati live, azione fisica e movimento corale che creano partiture ritmico-spaziali, testi originali che nascono in più lingue, sperimentazione vocale e fisica. Tutto parte dal performer, dalle sue potenzialità, dalle sue abilità affinate giorno dopo giorno, per anni, grazie a un training quotidiano e un lavoro di ricerca espressiva, per incontrare i molteplici linguaggi della scena. Un’estetica che si fa portatrice di un’etica che ci spinge ad indagare tematiche globali forti.
Viaggiare, attraversare, fuggire e tornare. Ci si ritrova? Vi ritrovate o c’è anche il rischio di perdersi in tutto questo?
Quando rientro da una lunga tournée è come se lasciassi una parte di me nei luoghi attraversati, vissuti. Mi capita spesso di tornare in quegli stessi luoghi, dato che da cosa nasce cosa e da un progetto se ne sviluppa un altro, più grande, più ambizioso, più legato al luogo stesso, che impari a conoscere sempre di più. Eppure quando torno non mi ritrovo, qualcosa è cambiato, non nei luoghi o nelle persone, ma probabilmente in noi, nell’approccio al lavoro, nell’oggetto e negli obiettivi della nostra ricerca. È una sensazione perturbante a volte, qualcosa di così familiare ma allo stesso tempo così lontano.
Un testo dello spettacolo narra di un sogno ricorrente, dove mi trovo a vagare in una città che non riconosco ma dove intravedo luoghi così familiari: «Am I dreaming or is my memory wandering in this global city». È stato proprio da questo senso di spaesamento che è nato l’intero progetto. Dalla volontà di contenere ricordi che si perdono in questo continuo viaggiare, fuggire. Sento che non c’è un ritorno in realtà, perché quando il viaggio diventa un elemento così preponderante, il punto di partenza sembra svanire e ti chiedi: da dove siamo partiti?