ILENA AMBROSIO | Come far incontrare Marina Abramović, Monteverdi, Penelope e Ulisse, Giuditta e Barbablù; e ancora Cyrano, Rossana e guerriglieri pronti a una battaglia? Un gioco da ragazzi se si assiste a una maratona teatrale dedicata al lavoro di Pino Carbone come quella che ha aperto la stagione di Sala Assoli e Teatro Nuovo a Napoli.
Una Maratona Sopra/Sotto che ha visto in scena ProgettoDue, ossia PenelopeUlisse e BarbabluGiuditta – lavori scritti a distanza di sette anni, 2017 il primo, 2010 il secondo – e il nuovo Assedio. Un trittico che ha debuttato alla Biennale latelliana, lo scorso luglio.

Quattro interpreti in scena, quattro “atleti” che si riscaldano. Delimitano un rettangolo con dello scotch bianco, lasciandone aperto un breve segmento,  a mo’ di quinta. Sarà quello il loro campo, può iniziare il gioco.
Il gioco è quello del dialogo, dell’interazione a due che, in ProgettoDueCarbone ha deciso di indagare maneggiando la materia del mito e della fiaba.
Un gioco, per la verità, è già a monte, nella scrittura drammaturgia, che vede un rovesciamento tra “yin e yang”: due autrici (Anna Carla Broegg, anche in scena come Penelope e Francesca De Nicolais) hanno dato voce ai personaggi maschili, Carbone a quelli femminili.

Il primo round si gioca sul campo del mito. Al «Cominciamo!» pronunciato dal regista – quinto elemento delle interazioni che fa da arbrito al limitare dello spazio – i quattro interpreti montano la scena  (un tavolino al centro, un plico di lettere, due sedie) e i due giocatori di turno indossano i loro costumi: pomposo abito da sposa per lei, frac per lui. Costumi marcatamente “teatrali” che stridono volutamente con la scenografia quasi assente, i gesti mimati, l’evidenza della finzione; quasi simulacri del melodramma che sta per essere rappresentato.
Sullo sfondo le musiche originali cariche di pathos dei Camera, dall’alto un davvero molto bello tetto di luci dirette, alternate tra tinta calda e tinta fredda; riflessi di yin e yang.

Risultato immagini per progetti due pino carboneLa suggestione iniziale, ha dichiarato Carbone, è arrivata dalla performance The artist is present di Marina Abramovic, dall’incontro inaspettato con il vecchio amore Ulay, dalla commozione, sfuggita al controllo, di lei. Così l’una di fronte all’altro si ritrovano, dopo vent’anni, Penelope e Ulisse per una sorta di terapia di coppia, confronto necessario tra due persone che, in definitiva, non si conoscono più; ma anche tra i due interpreti che devono vestirne i panni e che il regista/arbitro/terapeuta Carbone a tratti interrompe, corregge, indirizza.
Penelope e Ulisse balzano fuori dal mito, fuori dalle pagine di quell’Odissea che rileggono come per ricordare chi sono, anzi, chi erano; così i vent’anni di separazione si dilatano fino all’oggi, catapultandoli sulla scena. E, oggi, sono esattamente ciò che ci si aspetterebbe: lui vanesio, un po’ superficiale, l’eroe che con l’eroicità dei proprio atti eroici tenta di giustificare l’assenza, i tradimenti, l’abbandono; lei una donna il cui amore ha assunto la tinta amara del rancore, che rinfaccia la solitudine, le notti insonni a «contare le pecore», a crescere un figlio che Ulisse non conosce. Si parlano sempre tramite un microfono come anche negli altri due lavori:  nessuna mediazione tra interprete e realtà, nessuna voce aumentata; una scelta dettata, come ha spiegato Carbone alla Biennale, da un’insofferenza per la voce nuda degli attori. Si raccontano, si uniscono in un amplesso, materico e animalesco; poi dalle pagine salta fuori il nome di Calliope ed è di nuovo scontro, pianti, rivendicazioni.
«Di misera Regina / non terminati mai dolenti affanni. / L’aspettato non giunge, / e pur fuggono gli anni». Penelope declama, in recitar cantando – sapiente e controllato l’uso della voce di Anna Carla Broegg – l’aria da Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi che sfocia poi nell’ultimo sfogo: «Tu non sei mai tornato Ulisse… Ho combattuto giorno e notte per noi… Io ti sono dovuta, all’eroe tutto è dovuto…»

Su queste note dolenti la staffetta (fuori di metafora: la scena e i costumi) passa alla seconda coppia. Il tavolino è ora uno scrittorio al quale siede un uomo dalla barba blu. Parla di un mostro, di un essere che fa paura, tenuto lontano da tutti. Registra le proprie parole per poi riascoltarle ancora e ancora. Un meccanismo che puntellerà tutta la rappresentazione di BarbabluGiuditta. L’oralità della fiaba, la sua ripetizione.

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E in effetti un odore fiabesco impregna immediatamente l’aria che si respira in scena. Non si tratta di una cifra definita: sarà la barba blu e quel registratore vintage; sarà questa bimbetta che entra in scena sulle ginocchia, nel pomposo vestito bianco, con i codini e gli occhi bendati, perché si è persa giocando a mosca cieca (del resto cieco è l’amore, no?)… Insomma si sente la fiaba, ma, al contempo, avanza subdolamente la percezione della paura: cresce nell’animo ingenuo di Giuditta ma, in qualche modo, abita anche quello di Barbablu; il suo marchio di “mostro”, la sua paura di far paura.
Paura che esplode come terrore nella costrizione al matrimonio, nella violenza: la marcia nunziale cantata da Barbablu e poi riprodotta a ripetizione per una danza animalesca che si specchia in quella appassionata, però, e, in fin dei conti, carica di amore, di Penelope e Ulisse.
Dopo questo l’amore riacquista la vista, Giuditta finalmente toglie la benda e si alza – bravissima Rita Russo nel dare vita fino a ora a una figura bendata e “mutilata” – e insieme acquista la consapevolezza della storia e dei ruoli. «Lo sai che stai facendo per finta. Non deve finire per forza così!».
Come l’Odissea, il testo della fiaba è protagonista, fa da traccia, da regia e diventa – anche qui come ci si sarebbe aspettato – la cronaca di una violenza casalinga, di un marito che «non è cattivo, non è un mostro», che noi non conosciamo davvero. Ma lui non riesce ad affrancarsi dal ruolo di mostro: ritorna, scopre il tradimento della promessa, costringe la moglie a pregare, ancora e ancora, prima della punizione. E intanto si spoglia, così come fa lei.

Il finale fluisce senza soluzione di continuità dalla storia alla “morale” (quella proposta da Carbone almeno). In mezzo alla scena Barbablu è ora un uomo che racconta il suo dramma di essere mostro, di vedersi negli occhi degli altri «come fossero specchi che ti ricordano a ogni passo che la tua barba è troppo blu per il resto del mondo», che al suo passaggio sente un «vociare, impaurito di cui si capiscono solo le parole ‘mostro’, ‘barba’, ‘blu’»; un uomo che diventa incubo di se stesso, tormento delle sue notti; dilaniato da «una rabbia dentro al petto come una tosse, una rabbia che è paura di qualcosa di profondo e sepolto». Un testamento detto a voce e in LIS, mentre la parola ‘mostro’ gli viene scritta sul petto e poi cancellata.

Una morale che pare voglia inserisci in quella corrente di interpretazione psicanalitica, che tenta di rintracciare le scaturigini del male, di comprenderle e, spesso, giustificarle, facendo del carnefice una vittima del contesto che l’ha reso tale. Ma anche Edward mani di forbice – per fare un esempio – era considerato un  mostro, non per questo ha sentito la necessità di sgozzare a una a una le sue mogli! Questo finale, a dire il vero, in un tempo come il nostro in cui la violenza, in generale, quella sulle donne, in particolare, è all’ordine del giorno, sembra un tantino inopportuno.

Il maneggiamento del classico da parte di Carbone, si traduce in una “esplosione registica”: in una scena praticamente vuota la sua mano è decisamente evidente, a tratti forse troppo carica. Le tante suggestioni, i richiami, i segni, le soluzioni rappresentative – alcune  efficaci e soprattutto ben sostenute dagli interpreti – sembra abbiano fagocitato la drammaturgia la quale ha perso in originalità, proponendo, seppur con sincera e onestissima intensità, delle letture prevedibilmente attualizzate e che stentano a giustificare un tale impiego di mezzi espressivi.

Lo stesso, pur in un contesto rappresentativo differente, vale per Assedio, una vera e propria dichiarazione di guerra al Cyrano de Bergerac di Rostand.
Alla scena spoglia si sostituisce qui una stanza da accumulatore seriale: scaffali colmi di taniche di plastica, divani, mensole, un televisore, un consolle – da qui Marco Messina per le musiche originali e dal vivo insieme ad Alessandro Innaro (i 99 posse, per restare in tema di miti!) –, peluche, lampade e, ancora, le estensioni vocali degli interpreti, i microfoni.

Assedio_Courtesy-La-Biennale-di-Venezia-©-Andrea-Avezzu’
Foto Andrea Avezzu’

È qui, in questo che appare subito come un covo, che si sono rifugiati sette individui per prepararsi a una guerra imminente: il giorno dopo sarà il 5 aprile. Per la precisione del 1992. L’assedio di Sarajevo. La vicenda romantica del triangolo rostandiano viene catapultata con violenza in un micromondo allertato, sull’orlo del collasso, in procinto di schiantarsi contro il muro immane della Guerra, quella vera, non quella dei sentimenti, non quella dell’amore. I ruoli si sfumano: Cyrano, Rossana e Cristiano, svestiti della loro aura eroica, in mezzo a questo gruppo di guerriglieri, cercano di portare aventi il loro copione; ma il male, De Guiche – meglio, il suo ruolo incarnato dalla aggressiva Rita Russo –, la guerra, la Storia incombono. «Non c’è tempo, bisogna andare avanti», ripetono di continuo, avanti con la scena del balcone, con il bacio, prima che sia troppo tardi.
Quando scoccherà l’ora X sullo sfondo un timer si attiverà come una fosse una bomba e sarà l’assedio: «È iniziato, 5 aprile, apre il Luna Park Sarajevo»: ancora il gioco. Musica assordante, lotte a corpo libero, il delirio di parole della combattente Anna Carla Broegg a descrivere la paura, la necessità di «restare nascosti ad aspettare», il “gioco” della guerra: «Nascondino… Campana, un saltello e boom… Un due tre stella e stop! Attenti al cecchino…». Intanto la scena si svuota, si disintegra come dopo una detonazione. 14 minuti e 25 secondi, come i 1425 giorni di assedio a Sarajevo, il timer si ferma.

Ciò che rimane sono i resti della commedia eroica: una Rossana in pigiama, che aveva vagato per la scena impotente, smarrita, il corpo di Cristiano, Cyrano; l’agnizione e l’ultimo addio prima dell’abbandono al «braccio della Luna» (un riflettore bianco dalla sinistra della scena: un po’ alla Ghost per la verità).

Anche in Assedio la densità di segni, l’ulteriore carica data da una metateatralità che dovrebbe fare da link tra i due livelli narrativi; ancora, l’intensità della recitazione costituiscono una mole di sollecitazioni non sostenuta da una chiara e lineare drammaturgia che ne permetta la giusta collocazione semantica. Si fatica a comprendere cosa leghi il tutto, cosa giustifichi, al di là di un troppo debole parallelo con l’assedio di Arras cui partecipò de Bergerac, il fatto che Rostand si ritrovi nel mezzo della guerra in Bosnia ed Erzegovina. Che la guerra sia una brutta cosa è scontato; che distrugga tutto, amore, amicizia, lo è altrettanto. Ma quanto realmente serve per dirlo in modo convincente?
Dell’articolato ed esuberante impianto registro di Pino Carbone si apprezzano frame, singoli espedienti, la indubbia bravura e la sincera convinzione degli attori, così come si intuisce una salda convinzione registica ma, di fronte a così tanto, è lo spettatore a rischiare di sentirsi davvero sotto assedio.

PROGETTODUE
PenelopeUlisse|BarbabluGiuditta

scenografia e regia Pino Carbone
musiche originali Camera
aiuto regia Giovanni Del Monte
produzione Teatri Uniti in collaborazione con Ex Asilo Filangieri

PenelopeUlisse
di Pino Carbone e Anna Carla Broegg
con Anna Carla Broegg e Renato De Simone
produzione originale Ente Teatro Cronaca/Vesuvio Teatro (2017)

BarbabluGiuditta
di Pino Carbone e Francesca De Nicolais
con Rita Russo e Luca Mancini
produzione originale o.n.g. Teatri ed Eternit (2010)

Sala Assoli, Napoli
11 ottobre 2019

ASSEDIO

riscrittura Pino Carbone
da Cyrano de Bergerac di Rostand
e materiali raccolti sull’assedio di Sarajevo
con Anna Carla BroeggAlfonso PostiglioneFrancesca De Nicolais, Renato De SimoneRita Russo
musiche e suoni originali eseguiti dal vivo Alessandro Innaro e Marco Messina
costumi Annamaria Morelli
scenografie Luca Serafino
produzione Teatri Uniti

Teatro Nuovo, Napoli
13 ottobre 2019