RENZO FRANCABANDERA | Una tipica coppia da teatro dell’assurdo entra in scena in un desolatissimo e fintissimo deserto (immaginato dalla spinta creatività di Eleonora Rossi). Tipo Marte.
Tipo l’Arizona.
Anzi, proprio l’Arizona.
Sono la classica coppia americana, che si porta dietro u’ friggidèr (il frigorifero come lo chiama ancora oggi mia zia, emigrata negli States cinquanta anni fa), il tavolo da pic nic con le sedie da campeggio, sei metri di finto pratino, le mazze da golf, e l’immancabile bandiera, che viene subitaneamente piantata dai due, manco stessero allunando.
In questo paesaggio vuoto, marziano, iniziano a delirare in puro stile Ionesco, pian pianino avvicinandosi al tema della cronaca, fra un pezzo di torta e l’altro: stanno pattugliando, come gli angeli della notte, le pericolose frontiere con il Messico per impedire l’invasione del nemico.
Il classico testo furbetto scritto in piena era Trump, insomma.
Sbagliato!
Juan Carlos Rubio, diplomato alla Real Escuela Superior de Arte Dramático y Danza di Madrid, nato e noto come attore fra teatro e tv, dove ha presentato anche programmi a quiz, ha scritto Arizona nel 2008, dopo oltre quindici anni di lavoro come drammaturgo e sceneggiatore. All’epoca c’era George W. Bush come presidente degli USA, di cui forse questa attuale cinguettante presidenza ha oscurato le gesta, ma che fece votare al congresso americano il Secure Fence Act nel 2006, ovvero l’inizio della costruzione del muro a difesa del confine fra USA e Messico in funzione di blocco all’immigrazione clandestina.
Naturale quindi che questo testo riproponga la sua ciclica attualità rispetto a un tempo della storia che, a distanza di dieci anni, pare mantenere istanze e distanze dall’umano di pari portata.
In scena la coppia sviluppa da subito una amorevole differenza di modi: lui più invasato e convinto dalla missione, lei più melliflua e dubitativa. Lo interroga. Cerca di intuire le sue necessità per avvicinarcisi. Fabrizio Falco e Laura Marinoni modulano, nella parte del testo più serrata e ironica, una combinazione di intenzioni profonda e riuscita, con un reciproco alimentarsi. Tanto lui sembra determinato e accecato dalla missione, tanto lei si va via via sperdendo nel deserto dei Tartari, sentendosi avamposto del nulla, non solo geografico ma anche umano ed emotivo.
La radio diffonde notizie “ufficiali” sulle sorti magnifiche e progressive dei difensori della Patria e, anzi, evoca una sorta di comunità di vedette, ovviamente invisibili le une alle altre. E così quando lei inizia a cercare i suoi vicini, ad avere un senso di claustrofobia nel nulla che la avvolge, la drammaturgia vira (un po’ prevedibilmente) sul tragico.
Il finale è drammatico: lei cerca di fermare la sua deriva psicotica senza successo, anche se il testo, qui meno ricco di intuizioni, viene assecondato da un registro interpretativo che perde di scarto ironico e surreale, diventando manicheo: i buoni, fautori del dubbio, soccombono alla stolida ignoranza, certa di sè.
Detto questo, parliamo comunque di uno spettacolo ottimamente interpretato, in cui il duo (e lei con ogni piccolo gesto, sguardo, silenzio) scolpisce con intelligenza l’avvento dell’era post orwelliana del vuoto comunicativo. Ad amplificarlo la scelta del richiamo nei costumi di scena a quel fenomeno del tutto trasversale del ritorno in grande stile del vintage, caratteristico di un’epoca di crisi dalla quale si tenta di evadere attraverso il riappropriarsi di un passato percepito come perduto, un’età dell’oro, lontana dal presente incapace di sviluppare nuovi valori originari, mentre quelli tradizionali e di comunità vengono turbati dal meticciato.
Il vintage, in quest’ottica, è la paradossale rassicurazione, il ritorno di un passato non troppo lontano, del seno materno, di un vissuto consolatorio, almeno potenzialmente. E tale appare in questa luce il rapporto di lui (che indossa una mimetica sportiva da caccia) con lei (che rimanda a un dress code da America anni ’50). Tanto lei appare materna negli equilibri a due, che la scena di “amore” che ad un certo punto si consuma, assume non solo una tragica intonazione sorda, ma proietta una immagine a suo modo violenta e incestuosa.
Dobbiamo preoccuparci di quelli che girano in lambretta e si fanno la miscela a mano. Potrebbe essere gente pericolosa!
ARIZONA
Una tragedia musicale americana
di Juan Carlos Rubio
traduzione Giorgia Maria D’Isa in collaborazione con Pino Tierno
regia Fabrizio Falco
con Laura Marinoni e Fabrizio Falco
scene e costumi Eleonora Rossi
luci Vincenzo Bonaffini
musiche e suono Angelo Vitaliano
assistente alla regia Maurizio Spicuzza
direttore tecnico Robert John Resteghini
direttore di scena Lorenzo Trucco
capo elettricista e fonico Giuseppe Tomasi
scene costruite nel laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
responsabile e capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Riccardo Benecchi, Riccardo Betti, Sergio Puzzo
scenografi decoratori Ludovica Sitti (capo), Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Rebecca Zavattoni
si ringrazia Boutique Doria 1905
foto di scena Marina Alessi
si ringrazia per la collaborazione Davide Cirri
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
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