ILENA AMBROSIO | Leggere il copione di Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello è come trovarsi di fronte un testo di anatomia emotiva: il drammaturgo – allora ventiquattrenne, al suo esordio – incalza la propria stessa parola con indicazioni, precisissime, fantasiose persino, come a plasmare la sua creatura, a disegnarne gli atteggiamenti, a svelarne i pensieri, a definirne i contorni, anche sociali e culturali.
“Magnanimamente esplicativo… Insospettito… Salottiero… Con dolcezza… Professionalmente maga… Falso… Mondano… Vamp”: sono solo alcuni dei flash che illuminano le sfaccettature psicologiche, le attitudini, le pose di un personaggio complesso e intimamente tormentato. Jennifer, un travestito romantico che abita in un quartiere popolare della Napoli degli anni ‘80. Chiuso in casa per aspettare la telefonata di Franco, l’ingegnere di Genova di cui è innamorato, gli dedica Mina, Patty Pravo, Ornella Vanoni – una playlist indicata dallo stesso Ruccello che definisce tanto il tempo quanto il contesto della vicenda – da una radio che, intanto, trasmette gli aggiornamenti sul serial killer che in quelle ore uccide i travestiti del quartiere.
Forse la fedeltà a questo testo, prima di tutto, ha indicato la via a Gabriele Russo per la sua messa in scena di Le cinque rose di Jennifer che ha debuttato il 25 ottobre al Teatro Bellini. In scena suo fratello, Daniele Russo, e Sergio Del Prete.
Fedeltà integrale a un lavoro che proprio in quelle indicazioni custodisce la quintessenza del personaggio di Jennifer e dello spazio – lungi dall’essere semplice spazio materico – in cui vive.
L’appartamento in penombra diventa, sull’ampio palco del Bellini, un eccentrico e disordinato boudoir, “orribilmente kitsch” come da didascalia rucelliana. Sul fondo la scena è il quartiere dei travestiti, fondale in bianco e nero di palazzine dentro cui si conducono esistenze solo apparentemente a colori.
Un tavolo pronto per essere apparecchiato, un divano di velluto rosso degno del Moulin Rouge, giornali, disordine, la radio in proscenio; al centro, al posto d’onore, la toletta, il luogo del trucco, dove ci si trasforma per diventare qualcosa di diverso da sé.
Ma lo specchio è vuoto, è solo una cornice attorno al viso di Jennifer.
In questo frangente, nel rituale del trucco come sospeso nel tempo dal buio, dal riflettore scintillante che, diretto su Jennifer, ne isola il volto, da una musica a metà tra un carillon e uno scacciapensieri, qui per la prima volta intuiamo che la fedeltà di Russo al testo di Ruccello si sposerà con una lettura parallela volta a scavarlo in profondità, a svelare ciò che sulla pagina resta solo implicito. Con lo sguardo un po’ più consapevole e, ora, indagatore, ci accorgiamo che la stanza di Jennifer è delimitata da una tappeto nero e luccicante, il resto del palco è nudo. È in questo spazio “esterno” che fin da subito si muove una seconda figura, vestita di un cappotto grigio; pare un mendicante, ma il viso coperto di cerone bianco e il sottoparrucca la rendono simile a lei, a Jennifer… Non lo si comprende subito, lo si realizza poco a poco: è quella figura il vero specchio, la verità di Jennifer, la miseria della sua vita.
Lo suggeriscono i cambi improvvisi che puntellano il corso della narrazione, squarciandola: quadri dal sentore straniante – ma affatto forzato o affettato – in cui il caldo e voluttuoso chiarore dell’appartamento si spegne in favore di una luminescenza fredda – disegno luci Salvatore Palladino – in cui quelle due figure agiscono a ralenti, mimano gesti complementari e contrari; si incontrano e si specchiano l’una nell’altra. Il doppio segue Jennifer, come un rimosso ingombrante; non con violenza, ma muovendosi con la miseria di cui si sostanzia: le ricorda il suo aspetto e allora di corsa a radersi con rabbia (in una sovrapposizione di suggestioni torna in mente La Scortecata, favola di Basile nella messa in scena di Emma Dante), a truccarsi, a cambiare; le toglie di mano la spazzola che usa come microfono nel suo assolo da diva/Mina dedicato a Franco; prende il posto di Franco in un immaginario gioco a rincorrersi e il «Lasciami!» divertito diventa un urlo disperato. Squarci, dicevamo, della narrazione ma anche come della pagina ruccelliana, non per violarla, ma per estrarne il dentro.
Capiamo allora perché, quando quell’alter ego diventa Anna, prende vita una figura mascolina, ambigua, che istintivamente ripugna Jennifer. La frivola malignità che era di Ruccello diventa insofferenza, ribrezzo, forse persino odio. Perché ciò che questa Jennifer rifiuta con tutto il suo essere è il suo stesso essere, la miseria, la solitudine… «Il bello di vivere sola è quello di essere libera». Sembra la Violetta di Sempre libera; lì come qui la libertà è una maschera, un autoinganno per non dirsi drammaticamente sola.
Daniele Russo, nei panni di Jennifer – continuamente mutevoli nei costumi di Chiara Aversano – presta il proprio corpo, le espressioni del viso, le modulazioni della voce alla struggente mappa emotiva ruccelliana incarnandola con totale devozione. Soprattutto, il suo stare in scena sa dire con sincerità lo strazio di un’illusione protratta a tutti i costi, contro ogni evidenza, nella consapevolezza, in fondo, che di illusione si tratta. L’ampio spazio d’azione rende il suo andirivieni continuo, i balletti, le corse isteriche ad ogni trillo del telefono uno sfinimento, una tortura. Un acrobata in un equilibrio disperato, ma poeticissimo.
Uno strazio che non impedisce di assaporare l’aspetto ilare delle battute di Ruccello, intrise di una popolarità tutta partenopea. Eppure, nonostante, anzi, forse proprio in virtù di quel riso – declinato purtroppo in superficiale risata in alcuni spettatori – il dramma giunge ancor più potente. E sta proprio lì, in quel sorriso di facciata cui pare che Jennifer si aggrappi, in quei denti stretti che sono sbarre che imprigionano il pianto, l’urlo, così tanto abituati a restare compressi da esplodere alla fine solo in sussurro «Nun cia facc cchiù, nun voglio sta’ sola…Mamma!… Mamma!»
Il sipario si chiude. Un colpo di pistola.
La didascalia di Ruccello indicava buio ma quella tenda calata sembra dirci che a concludersi è anche una vita vissuta come una sceneggiata, una ostinata menzogna per combattere la solitudine, per sopravvivere.
Poi il sipario si riapre e ciò che resta è un boudoir desolato. Un telefono che squilla a vuoto.
LE CINQUE ROSE DI JENNIFER
di Annibale Ruccello
con Daniele Russo e Sergio Del Prete
scene Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
regia Gabriele Russo
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Teatro Bellini, Napoli
25 ottobre 2019
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