ANDREA ZANGARI e RENZO FRANCABANDERA| AZ: Il pubblico del teatro si può dividere in due categorie: chi prima di vedere uno spettacolo legge il foglio di sala, e chi no.
Al debutto nazionale di La Valle dell’Eden di Antonio Latella, fra gli appuntamenti più attesi della stagione bolognese di ERT (che coproduce insieme al Metastasio e Stabile dell’Umbria), la prima fazione ha avuto pane per i suoi denti.
Un nutrito libello con note registiche e drammaturgiche, un albero genealogico per mappare le pluri-generazionali vicende dei protagonisti del romanzo di John Steinbeck, alcuni brani a suggerire temi e chiavi di lettura. Accanto alle parole, foto di grigie facciate di caseggiati popolari, fitte di finestre, condizionatori, graffiti. Un paesaggio brutale, ben diverso da quello che le parole del romanzo di Steinbeck dipingono, sin da quell’incipit un poco manzoniano sulla Valle di Salinas con il suo fiume che vi si arrotola e si srotola, fecondandone la terra. Un campo larghissimo che restituisce tutta la distanza fra le possibilità narrative della letteratura e del teatro.
Ci si potrebbe limitare ad un’analisi dei due incipit. Steinbeck comincia dalla natura, introducendo i personaggi solo nel terzo capitolo; il pubblico entra a teatro ed ecco già lì, sulla scena, quegli stessi personaggi. Tre uomini, seduti in fila ad un tavolo, spalle alla platea, quasi sul limite della ribalta, sotto le luci altissime della sala, che non accennano a scendere. L’inizio è già stato, in un tempo di cui non eravamo spettatori; forse lo erano i tre, immobili, al tavolo. Dopotutto, guardano nella stessa direzione in cui guardiamo noi, verso la scena nuda, senza quinte, sfondata ai lati e verso il cielo. È la natura di un edificio teatrale.
RF: Esistono due categorie di spettatori: quelli angosciati dallo spazio vuoto e quelli che lo adorano. Non è un caso se questo sia il titolo che Peter Brook ha scelto per il suo più celebre libro sulla sua esperienza teatrale. E occorre dire che, nel tempo, Antonio Latella – che pure ha avuto anche allestimenti scenografici importanti – ha sempre giocato con il tema dello spazio vuoto. In Il servitore di due padroni, il gioco era poi a smontare la scena per riportarla a quel vuoto assoluto che è appunto lo spazio in cui il suo teatro, che è un teatro di prosa e di interpretazioni, sa trovare le sue ragioni profonde di essere.
In questo ambiente vuoto, nero, neutro, e quindi capace di ospitare più profondamente l’immaginazione, Latella combina di volta in volta un mix di attori della parola e di attori dello stare in scena, esaltati da gesti, scelte sceniche e da uno, massimo due eye catcher scenografici, di solito di dimensioni extra large: fu così per la bambola totemica di Le lacrime amare di Petra von Kant (2006 – scene di Annelisa Zaccheria), o il grande tappeto a fondale di Ti regalo la mia morte, Veronika (2015 – Giuseppe Stellato), per il tendaggio centrale del Don Giovanni, a cenar teco (2011, Fabio Sonnino), lo stesso ambiente de Il servitore, appunto, artefatto elemento a riempire il vuoto scenico cui si tornerà dopo il suo smantellamento (2013 – sempre Zaccheria). Si arriva così fino al vuoto assoluto di Aminta (2018), in cui Stellato intona alla cifra del genio l’idea luministica di Simone De Angelis, mettendo in scena il binario su cui ruota, con la lentezza dell’orologio, il faro che gira e illumina, come un sole antecopernicano, gli attori.
Ma ci sembra necessario porre in rilievo a questo proposito una circostanza: in entrambi i lavori in cui Latella ha avuto a che fare con il mito americano, il grande mito americano, ovvero il Francamente me ne infischio (2011), i cinque movimenti liberamente ispirati a Via col vento di Margaret Mitchell (scene e costumi Marco Di Napoli e Graziella Pepe
) e questo La valle dell’Eden, riscrittura a firma Dalisi/Latella del grande romanzo di Steinbeck (scene di Giuseppe Stellato), questo spazio vuoto finisce poi nell’atto finale per atterrare su una totemica e imponente dimora americana dai muri sventrati, trasparente (questa del 2019 assai più di quella di cinque anni fa, forse anche per ragioni di budget).
Parlando di scelte e ispirazioni scenico letterarie, la cui ricorrenza tuttavia è indiscutibilmente elemento simbolico di riflessione tanto quanto lo spazio vuoto in cui questi segni vanno a posizionarsi per connotare, finiremmo per partire dalla fine invece che dal principio. Che in questo caso è uno spazio vuoto ma già presente all’ingresso degli spettatori in sala.
AZ: In principio non era il verbo, bensì un silenzio che dura fintanto che l’uditorio non entra in ascolto, gli occhi fissi su quelle schiene. Solo allora due corpi si muovono, cambiando posto in senso antiorario, intorno al tavolo, e di nuovo attendono. La regia reclama i suoi tempi, suggerisce una temporalità ellittica in cui si dilata l’attesa della parola. Altro cambio di posto, e poi ancora fino a che uno dei tre si trova di fronte all’unico rimasto immobile, ai lati opposti del tavolo. Dal loro con-frontarsi sembra sorgere la parola, dal loro constatarsi diversi nel volto. Sono un padre e un figlio, Adam (Annibale Pavone) e Cyrus Trask (Emiliano Masala). A fianco a loro è Charles, l’altro figlio (Christian La Rosa). Un conflitto triangolare: così è La Valle dell’Eden, gioco combinatorio di identità che per gemmazione si rispecchiano e si distinguono, rimanendo imprigionate nella forza della discendenza, lottando per essere-sé oltre la maledizione del proprio sangue. È la storia di Abele e Caino, e di un terzo che personaggio che è JHWH, il Padre, vero motore della tragedia così come i padri Cyrus e il figlio, poi a sua volta padre, Adam Trusk.
RF: Nel dicembre 2015 presso il Castello Estense di Ferrara fu possibile osservare in anteprima assoluta il dipinto Caino e Abele attribuito al Guercino. Chi ebbe a commentare l’opera metteva in risalto la forza drammatica del corpo seminudo e disteso in diagonale in primo piano di Abele, in contrasto con la figura di Caino, in fuga nell’oscurità del fondale. Anche in questo dipinto è possibile osservare la celebre tecnica della macchia guercinesca, una tecnica pittorica in base alla quale si giustappongono “macchie” molto uniformi di colori in modo armonico ed equilibrato, in modo da spezzare le forme per studiarne gli effetti di luce in rapporto con i mutamenti dell’ambiente esterno, oltre alla sua inconfondibile maniera di rendere l’anatomia degli arti, di solito sovradimensionati e rigonfi, al fine di scolpire le masse nei contrasti luministici, per accentuare l’effetto drammatico.
Ci soffermiamo su questa esemplificazione iconica al solo fine di creare un paragone fra l’operazione di resa pittorica (peraltro a soggetto attinente) che Guercino soleva porre in essere, e quanto fatto da Dalisi (e Latella) sul testo di Steinbeck, di cui vengono selezionate alcune pagine, utili non solo a mettere in rilievo la vicenda di per se stessa, ma a sbalzare il carattere dei personaggi e, cosa ancor più centrale a mio personale avviso in questo lavoro, a calibrare il portato della scrittura dello scrittore americano dentro una tradizione archetipica che contiene larghissima parte dello spazio tragico classico, a partire dal l’ Antico Testamento, passando poi per tutta la mitologia e la tragedia greca, con le sue salvezze (poche), le sue epopee e saghe familiari, e le sue dannazioni.
AZ: Per fortuna drammaturgica, Steinbeck ha riconosciuto nel passaggio veterotestamentario una struttura ripetibile, la forma di una maledizione che interroga da sempre, ovunque c’è filiazione, o creazione. Un nucleo drammaturgico, insomma. Lo schema diventa trama di un vaglio nel quale Linda Dalisi può passare il materiale letterario, la cui consistenza rende obbligatorio un criterio di scelta. Quali passaggi narrativi sono irrinunciabili per mantenere il senso della storia? La forma-romanzo induce a ricercare nella parola una funzione rappresentativa, un naturalismo che lasci scorrere mezzo secolo di vicende famigliari dei Trask e degli Hamilton; il linguaggio teatrale richiede di spezzare quelle parole nei corpi degli attori, renderle performative. E non si sfugge da questa esigenza anfibia (performativa-rappresentativa), che fa di ogni parola l’oggetto di uno sguardo certosino e biforcato. Al contempo, la scrittura steinbeckiana ha una qualità intrinseca che Dalisi sceglie di conservare, valorizzando i passaggi ironici, d’altro canto necessari a stemperare una vicenda largamente tetra, lo slang, il colore pastorale mescolato alla solennità sapienziale di personaggi ineffabili come Samuel Hamilton (Michele di Mauro) e Lee (Massimiliano Speziani).
RF: E occorre dire come in modo davvero assoluto due dei quattro atti in cui questa creazione è ripartita, poggino sulle prove attorali titaniche di questo duo di non-protagonisti (ai fini dell’economia della vicenda famigliare) ma che rappresentano simbolicamente il richiamo alla funzione arcaica e animalesca del vivere, indossato da un di Mauro capace di vibrazioni interpretative che oscillano dalla dolcezza alla bestialità, e la raffinatezza filosofica della figura di Speziani, chiamata, anche nell’azione, a movimenti, azioni, di lentezza e costrizione esemplari.
I movimenti scenici, spesso riverberati con il ricorso a microfoni ambientali capaci di amplificare passi, battiti, azioni di singole partizioni dello spazio del palco, creano macchie concettuali guercinesche in grado di rendere leggibili le masse emotive presenti nel testo, seppur partizionate su più atti, e di legarle fra loro, accostandole per tre dei quattro atti al contrappeso simbolico di pochissimi oggetti e pose di scena, capaci di rendere l’ambiente in modo artificioso ma funzionale (sassi, cappelli western, tavolo, sedie, prato finto e vassoi colmi di calici e bottiglie di whiskey, poco altro se non le luci e lo spazio vuoto). Di identica portata, spesso puramente simbolica, le musiche e il suono affidati alla cura di Franco Visioli che, nell’ultimo atto, ad esempio, si riduce a contrappuntare il palesarsi del dolore con una nota monotona e sorda.
AZ: Ne risulta una drammaturgia che respira con un polmone letterario ed uno scenico: organi separati ma impensabili singolarmente. S’intuisce, rispetto ai lavori di Latella, una più consistente fase “a tavolino”, o se non altro la consegna agli attori di una parola già segnata, da filtrare, da piegare nei corpi, ma non da rivoluzionare. Consegna che si giova di interpretazioni inappuntabili per tessitura vocale, partitura gestuale, equilibrio di palco. Una statuaria Elisabetta Valgoi comunica con misurata freddezza l’oscura voragine del personaggio nevrotico di Cathy/Kate. Massimiliano Speziani riempie la scena con la leggerezza di un tic, reifica il pensiero di Lee nello spazio vuoto fra sé e il pubblico. Annibale Pavone fa della staticità di Adam, inchiodato alla sedia, di spalle, per tutta la prima parte, un perno della storia e della scena. Michele Di Mauro inscrive in Samuel Hamilton un’energia cosmogonica, danzando fra la collera di un dio-padre-levatore e la saggezza di un pensatore-contadino. Difficilmente un lettore si figurerebbe, innanzi al testo, un personaggio così vivido. A Candida Nieri il ruolo complicato dell’alter ego del narratore, segnato dalla necessità di essere onnipresente assenza in un costante controscena. Questa figura scompare nella seconda parte, ove Nieri ricopre ruoli ancora una volta complessi (Faye\Eva) poiché per economia narrativa meno approfonditi degli altri, slegati fra loro da quelle simmetrie che invece regolano il passaggio di ruolo di La Rosa, che prima è Charles poi Caleb Trask, e Emiliano Masala, che da Cyrus diviene Aaron (e fra questi coprendo altri ruoli secondari, risolti in quadri isolati).
RF: Il passaggio generazionale e di personaggio, ma anche il cambio emotivo dei personaggi si completa nella resa scenica grazie al lavoro sui costumi di Simona D’Amico cui va il merito di proporre alcune fissità cromatiche corrispondenti a passaggi di stato, fino ad un rosa che alla fine “contagia” quasi tutti i personaggi maschili, mentre le figure femminili vibrano di accese tonalità verdi e gialle; fino al capolavoro cromatico-luministico del quarto atto in cui la Valgoi – ormai diventata Kate, tenutaria di bordello – è incorniciata dentro uno spaccato di muro lasciato vuoto della casa che viene costruita in scena, una visione capace di far scorrere nella mente dello spettatore appassionato d’arte tutta la pittorica occidentale dalla dama con l’ermellino di Leonardo fino alle rese video di Bill Viola. Un grande fotogramma di scena, che l’occhio del pubblico isola precisamente, aiutato dal preciso e lunare disegno luci di Simone De Angelis.
AZ: L’indirizzo registico risponde alla necessità di compaginare tali e tanti elementi, dando ritmo e semplicità a una composizione che, con quasi sette ore di durata, non può trascurare le esigenze degli spettatori. Così il tavolo della prima parte, nella sua fissità, bilancia la scena, fornisce un appoggio anche fisico all’azione che prolifera intorno: fornisce delle regole così evidenti da far gravitare la parola nel suo campo geometrico e simbolico. La sua scomparsa nella seconda parte si fa sentire: i corpi in piedi appaiono più soli, le parole inchiodano spietatamente all’ascolto, fino a che l’intelaiatura di una casa è calata dall’alto, a magnetizzare di nuovo lo spazio, a farsi ruotare intorno, costruire, percuotere, maledire. È proprio la seconda parte a soffrire una disomogeneità nella scrittura, quando l’urgenza di fare sintesi, di giungere ad una fine, comprime nei dialoghi tempi e luoghi assai distanti. Ma in soccorso alla parole, gli oggetti indicano una direzione, condensano gli eventi, fanno cortocircuiti simbolici per avvicinare i lembi della trama. Quando Cathy partorisce, i corpi dei neonati ancora senza nome sono due pietre: in ebraico figlio (ben) e pietra (eben) sono la stessa parola, se non per la diversa pronuncia della loro prima lettere BET. Che, guarda caso, in lingua sacra ha la forma di una casa stilizzata, come quella calata sulla scena.
RF: La mente degli appassionati di teatro non ha potuto, secondo me, per vari ordini di ragioni, non contemplare nella gamma dei pensieri laterali, un paragone con un’altro campo lungo sulla storia americana, la Lehman Trilogy, ultima regia di Luca Ronconi tratta dal testo di Stefano Massini, che raccontava la saga dei Lehman dallo sbarco dalla Baviera a New York a metà Ottocento, al crollo della Lehman Brothers nel 2008. Anche in quel caso l’incombere dell’esigenza narrativa costringeva nella seconda parte a scelte di condensazione che a tratti andavano a scapito della leggibilità intuitiva: entrambe le vicende partono dall’America rubata agli indiani, su cui si innesta una cultura che non è solo quella del vecchio continente e che, nella mescolanza, diventa ben presto elemento di connessione con l’universo filosofico e morale di partenza. In La valle dell’Eden si fa interprete di questo rapporto con la terra d’origine la straordinaria figura di Lee, immigrato cinese che mantiene codici, abitudini e spirito di conoscenza profondamente connessi alla terra di provenienza, condensate nell’acconciatura, il codino, portato dai Manciù della Manciuria centrale e in seguito imposta ai Cinesi Han durante la dinastia Qing, obbligatorio per tutti i maschi pena la morte per tradimento, obbligo dismesso solo all’inizio degli anni 1910, dopo la caduta della dinastia Qing. Anche Lee, come la maggior parte dei cinesi abbandona l’acconciatura quando l’ultimo imperatore della Cina Puyi si tagliò il codino nel 1922. In questo personaggio evidentemente si condensa una contrapposizione di legame con la cultura di origine che invece non appartiene a Hamilton, immigrato irlandese, che finisce la sua vita in un simbolico pellegrinaggio in età anziana fra le case dei figli, sparsi ormai in tutto il continente americano.
AZ: La casa, la terra, i padri, le madri, i figli, il viaggio: questa Valle dell’Eden è l’anagramma della creazione, è l’enumerazione elementale dell’uomo che deve dare nome al tutto. «Esisteva l’Eden prima che l’uomo avesse il dono di dare il nome alle cose? In quell’Eden dove il giorno e la notte erano sipario di un atto creativo fuori da ogni comprensione umana, un Dio creò il Tutto, da solo lo creò. Oggi mi chiedo: perché lo creò?» si chiede Latella, ed è forse la domanda più umana che ci sia.
Spettacolo e romanzo si rinsaldano nel finale in forma di lettura, nella voce di Candida Nieri. Tutto finisce in quell’ultima parola timshel che è “scelta” in ebraico, motore della Storia e della libertà come forma dell’umano. Il che ci riporta alla centralità della parola e dell’operazione drammaturgica, a Dalisi e Latella che scelgono le parole, che sono figli, che sono pietra, che sono casa, che sono la Parola. Che sceglie di finire con l’unica fine possibile, che è la parola scelta.
LA VALLE DELL’EDEN
di John Steinbeck
traduzione Maria Baiocchi e Anna Tagliavini
adattamento Linda Dalisi e Antonio Latella
regia Antonio Latella
con Michele Di Mauro, Christian La Rosa, Emiliano Masala, Candida Nieri, Annibale Pavone, Massimiliano Speziani, Elisabetta Valgoi
scene Giuseppe Stellato
costumi Simona D’Amico
luci Simone De Angelis
musiche e suono Franco Visioli
assistente al progetto artistico Brunella Giolivo
assistente alla regia volontario Paolo Costantini
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio di Prato, Teatro Stabile dell’Umbria
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