ELENA ZETA GRIMALDI| A qualcuno può sembrare, purtroppo, anacronistico parlare di mafia. Come l’attualissima cronaca ci testimonia, la cosiddetta opinione pubblica (e non solo) circoscrive l’ambito che questa parola identifica con molta più difficoltà di qualche decennio fa. Siamo tutti preda (ammettendo la totale buonafede) di una grande confusione, confusione che si fonda su un concetto ormai obsoleto – e, oserei dire, quasi mitico – della mafia a cui siamo – oserei dire, quasi romanticamente – ancorati da oltre mezzo secolo: la mafia come piccolo nucleo impermeabile e circoscritto al territorio, la mafia della guerra alle istituzioni, la mafia senza compromessi, la mafia come fenomeno cristallizzato nel tempo, che non ha subìto e non subisce trasformazioni.

Ma c’è, ovviamente, chi parla ancora di mafia, e anche chi lo fa cercando di dare nuovi ritmi alla solita, vecchia, musica: alle porte dell’imminente tournée italiana, in anteprima alla Sala Laudamo di Messina, la nuova versione di Il mio nome è Caino declassa la stretta cronaca e la utilizza per immergerci nella mente del più spietato dei sicari. Dall’omonimo libro di Claudio Fava, il nuovo spettacolo vede Ninni Bruschetta non più regista (come nella versione del 2002, con più personaggi e le musiche dei Dounia capeggiati da Faisal Taher) ma attore protagonista, insieme a Cettina Donato, pianista, compositrice e direttore d’orchestra, con cui dialoga per quasi sessanta minuti di straniante monologo. Con la regia di Laura Giacobbe e sempre prodotto da Nutrimenti Terrestri, in questo nuovo allestimento è Bruschetta a incarnare lo spietato killer di mafia Caino, così chiamato per essersi offerto di uccidere, come primo omicidio, come prova di fedeltà, un uomo che per lui era come un fratello.

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foto di Giuseppe Contarini

Il Caino di Claudio Fava non è realmente esistito, ma è un personaggio assolutamente verosimile che racconta con cognizione di causa la realtà della sanguinosa guerra di mafia per il controllo di Palermo e dispiega, da un punto di vista più che privilegiato, il processo di trasformazione che ha portato la mafia siciliana da semplice gerarchia di gestione del territorio a un vero e proprio apparato di controllo delle vite: Caino, al contrario del padre e del nonno, «al comando ha preferito l’amministrazione rigorosa della morte, qualcosa che somiglia a un mestiere» (L. Giacobbe).

Sull’affievolirsi delle luci, una musica dalle cadenze hip hop ci accompagna dalla poltrona al palco, dove la nostra attenzione si fissa su due eleganti figure (abito nero con gonna a balze lei, smoking e papillon lui) che prendono posto, come preparandosi a un’esibizione da night club di altri tempi. Dal pianoforte escono le prime note: leggere e prudenti nel presentarsi, esplodono e si moltiplicano, si lanciano a sopraffare la traccia, e, ottenuto il dominio, tornano calme al centro della scena. È in questo preludio che inizia la storia di Caino, una testimonianza che rende a se stesso come in un processo, contemporaneamente accusato, testimone e giudice.

Dal primo omicidio alla fama consolidata, il monologo ci porta dalle campagne della periferia di Palermo alle sue strade più buie, dalle sale del potere delle famiglie alle feste di gala cittadine; ci presenta le tarantelle dei boss in guerra e quelle dei politici in cerca di protezione. Perfettamente accompagnato e sostenuto dalla partitura sonora (quasi tutti pezzi inediti nati da uno studio condiviso dei due artisti) che sfuma dal classico, al popolare, al jazz, anche la narrazione si dissolve nella riflessione, illuminando con tutti gli elementi a disposizione (tra cui anche l’accurato disegno luci di Renzo Di Chio) le facce di un personaggio che, mano a mano, da alieno si trasforma in essere umano.
Caino «usa la sua contorta morale per avvicinarci al pensiero del male che, in ogni caso, non figura così distante da noi» (N. Bruschetta) e, parallelamente alla trasformazione da mafia rurale a istituzione allargata e consolidata, rintracciamo nei movimenti del testo un mutamento più generale: possiamo paragonarlo, senza troppa fantasia, a tanti personaggi che nel nostro passato più recente si sono costruiti la fama con la fortuna, e la fortuna con la fama (sempre in maniera piuttosto torbida); o possiamo ritrovarne alcuni tratti nelle tendenze spettacolaristiche di cui la società odierna è sempre più impregnata.

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Foto di Giuseppe Contarini

La ricerca di protagonismo, l’ebbrezza del controllo, quella dipendenza, mista di goduria e sdegno, verso chi cerca di accattivarselo, la sete di potere sopra ogni cosa e persona, la più totale negazione delle conseguenze, sono “malattie” che nel nostro presente conosciamo bene.

Perso nel suo delirio individuale di rigore e potere, Caino arriva infine a rifiutare di uccidere l’onorevole Ravidà, scomodo caposaldo dell’antimafia, adducendo come ragione di non voler «fare un favore a quel cane». Ma sarà proprio questa la sua condanna: alla Cupola non disobbedisce nessuno, neanche il famigerato Caino.

Tutt’altro che anacronistiche, le vicende intrecciate da Claudio Fava, «testimone diretto e anche vittima della furibonda guerra di mafia siciliana» (N. Bruschetta), ci si presentano come un patchwork di storia di Cosa Nostra, cucito addosso a un personaggio tanto perfetto nella sua spietatezza da non poter essere altro che fittizio. Personaggio che, grazie alla sua forza in scena, compie il passo definitivo e diventa reale quel poco tempo che basta a convincerci di essere umano, esattamente come noi.

 

IL MIO NOME È CAINO

di Claudio Fava
produzione Maurizio Puglisi per Nutrimenti Terrestri
con Ninni Bruschetta e Cettina Donato al pianoforte
regia Laura Giacobbe
allestimento Mariella Bellantone
costumi Cinzia Preitano
disegno luci Renzo Di Chio
sound designer Patrick Fisichella
progetto grafico Riccardo Bonaventura
foto Giuseppe Contarini
comunicazione Marta Cutugno

Sala Laudamo, Messina
7 novembre 2019

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