ELENA SCOLARI | No, L’abisso non è uno spettacolo necessario, non è nemmeno urgente e tanto meno civile né impegnato. Chè appena si sentono (o leggono) questi aggettivi consunti ci si sente immediatamente tanto corretti, tanto giusti e tanto solidali con i disgraziati ultimi di cui in questi spettacoli si parla; e se poi li si va a vedere, giustizia raddoppiata.
L’abisso è più di tutto questo perché c’è la sofferta presenza personale dell’autore, c’è la cura per la precisione nella volontà di non risparmiare nulla allo spettatore.
Non bisogna andare tutti a Lampedusa o a Lesbo per essere cittadini (o artisti) degni, certo che no; gli spettatori fanno bene ad andare a teatro a vedere questo lavoro, e il teatro fa il suo lavoro se racconta il mondo col proprio linguaggio, questo deve fare, incidere un segno instillando un pensiero; e questo spettacolo lascia una sensazione molto forte: la sensazione che tutti noi non potremo mai capire, nel senso completo del termine, cosa vivono le persone che attraversano il Mediterraneo con i barconi o con i gommoni, è troppo.
L’abisso è piuttosto uno spettacolo duro, difficile da sopportare, netto, affilato come la lama che sfiletta il pesce, sì perché in quelle maledette reti ci trovi dentici e bambini, saraghi e ragazzine. Morti.
Davide Enia in questo testo tratto dal suo libro Appunti per un naufragio non fa circonlocuzioni per descrivere cosa ha visto quando a Lampedusa ha assistito a uno sbarco, e soprattutto cosa gli hanno raccontato i “rescue swimmers” con i quali ha parlato, quelli che veramente dalle motovedette si buttano in mare, pure se è freddo, pure se è notte, pure se c’è tempesta, per salvare i naufraghi. E sono cose tremende. Ci crediamo che poi sia stato chiuso in cucina tre giorni a fare marmellata con le arance mandate dalla madre da Palermo a Roma, una specie di terapia per trovare come convivere con quello che si è visto; già, perché Enia ha visto i video girati con la GoPro dai sommozzatori mentre eseguono le operazioni di salvataggio.
È l’orrore che vive nelle pagine di Cuore di tenebra (1899) di Joseph Conrad, quando, dalla Nellie, il marinaio Marlow osserva per la prima volta gli indigeni sulla costa del fiume Congo:
La terra non aveva nulla di terrestre. Siamo abituati a guardare il mostro vinto e in catene, ma lì – lì quel che si vedeva era il mostruoso in piena libertà. Non aveva nulla di terrestre, e gli uomini erano… No, non erano disumani. E, sapete, proprio questo era il peggio – il sospetto che non fossero disumani. Era qualcosa che saliva dentro lentamente. Quelli urlavano e saltavano, e giravano, e facevano smorfie orrende; ma quel che dava i brividi era il pensiero della loro umanità – pari alla nostra – il pensiero di una remota parentela con quel grido selvaggio e sfrenato. Brutt’affare. Brutt’affare davvero; eppure se eravate abbastanza uomini avreste dovuto confessare a voi stessi l’esistenza di un’eco, magari debolissima, alla tremenda franchezza di quel chiasso, un vago sospetto che contenesse un significato che noi – pur così lontani dalla notte dei primordi – potevamo comprendere. E perché no? La mente umana è capace di qualsiasi cosa – poiché racchiude in sé ogni cosa, tutto il passato e tutto il futuro. Che cosa avevamo davanti dopotutto? Gioia, paura, dolore, devozione, coraggio, ira – chi lo sa? – ma la verità – verità libera dal manto del tempo. Stupore e raccapriccio lasciateli agli sciocchi – chi è uomo sa, e riesce a guardare senza battere ciglio. Certo è necessario essere uomo almeno quanto quelli sulla riva.
Ribaltiamo la prospettiva: noi siamo sulla terraferma, i migranti sono “il mostruoso” che è stato trattato come non umano; non ce lo aspettiamo come noi, siamo sinceri, e invece siamo vicini, leggiamo in loro la stessa umanità che fa provare a tutti dolore, paura, spaesamento. La tremenda franchezza delle loro smorfie, delle ustioni, delle ossa rotte dalle torture, i segni di stupri continui sulle donne, la nafta che fa sgusciare i corpi dalla presa dei soccorritori, le foglie di menta infilate nel naso per sopportare il fetore e riuscire a recuperare i cadaveri per dare loro sepoltura. Ecco, questa è la verità che ha davanti chi salva i naufraghi in mare. Noi ce la possiamo soltanto immaginare, con raccapriccio, ma possiamo sentirla di più quando è tanto nitidamente messa in parole.
Shakespeare ce lo ha insegnato benissimo ne Il mercante di Venezia: forse che Shylock non sente lo stesso freddo, la sua carne non si ferisce forse come quella di tutti i gentili non ebrei?
Davide Enia dice, chiaramente, che bisogna ridare dignità alle parole, dice che quello che lo ha fatto riemergere dal groviglio emotivo che lo aveva investito dopo Lampedusa è stato scrivere le parole; e poi dirle, con una maniacale attenzione per ogni termine, un’onda di parole che non può non colpire, meravigliosamente accompagnata e sostenuta dalla musica delle chitarre di Giulio Barocchieri, intrecciata ai gesti, ai movimenti del corpo di Enia che sono parte del suo Abisso, disegnano nell’aria le sensazioni vissute.
La qualità sta anche nel montaggio drammaturgico intelligente e non retorico che accosta il rapporto tra Enia e suo padre, un uomo siciliano taciturno come vogliono i cliché, un ex cardiologo che, a sorpresa, decide di accettare l’invito del figlio ad andare a Lampedusa con lui. Un collegamento viscerale tra generazioni a dire che il proprio viaggio parte sempre dalle origini, come Europa che arrivò a Creta dopo una traversata in mare, sul dorso di Zeus trasformato in toro.
Parallelamente c’è la storia – narrata anche con ironia – di zio Beppe, fratello del padre, malato, e che ascoltando e leggendo i racconti del nipote Daviduzzo capirà qualcosa di più del suo compagno di stanza in ospedale che viene dalla Libia.
Il ritmo che Davide Enia imprime alla recitazione è dato non solo dalle radici affondate nel cunto siciliano ma anche dalla costruzione modulare del testo, in cui tornano alcuni ritornelli che legano i blocchi narrativi in modo musicale.
Dopo tanti anni Enia torna sulle scene perché forse, dopo questa esperienza, non poteva fare a meno di farlo. Un attore usa il proprio mezzo: il teatro può colmare quell’intervallo di incredulità che rimane quando sentiamo cronache tragiche “strattonate” per affermare qualcosa che non sembra davvero aderire al sentimento verso le persone.
Si dice della potenza delle immagini, ma qui la forza delle parole, l’esattezza cinica e addolorata del racconto ci schiaffeggia sonoramente, con impeto e senza alcuna sordina.
L’ABISSO
tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio editore)
uno spettacolo di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo, Accademia Perduta/Romagna Teatri
in collaborazione con Festival internazionale di narrazione Arzo
Piccolo Teatro Grassi, Milano
14 novembre 2019, in scena fino al 24 novembre
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