GIORGIO FRANCHI | La Polonia: un Paese al confine tra due continenti, segnato dall’antichissimo retaggio cattolico, dalla contesa dello Stato fra due grandi potenze durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale e da una recente ascesa della destra estrema populista. Vi ricorda qualche altra nazione?
Sarà per la vicinanza storica e politica con il nostro Paese o per la produzione di una delle drammaturgie contemporanee più coinvolgenti d’Europa che la 55° edizione del Premio Riccione ha deciso, in collaborazione con Fabulamundi – Playwriting Europe, PAV e l’Istituto Polacco di Roma, che il primo anno in cui la manifestazione avrebbe dedicato un giorno alla produzione teatrale di un Paese europeo, questo sarebbe stato la Polonia. Così è stato. Il 2 novembre 2019, la splendida cornice di Villa Franceschi ha ospitato il dibattito Dal Baltico all’Adriatico. Nuove frontiere del teatro europeo, moderato da Graziano Graziani. All’intervento della fondatrice di Fabulamundi Claudia di Giacomo si aggiungono quelli delle autrici Anna Wakulik ed Elżbieta Chowaniec, entrambe uscite dalla scuderia del Teatr Dramatyczny di Tadeusz Słobodzianek, che dalla fine del periodo comunista ha curato la formazione di una nuova generazione di drammaturghi nazionali. Nella stessa serata viene presentata una mise en espace di Gardenia, l’opera di maggior successo di Chowaniec, per la prima volta rappresentata in Italia.
Ciò che ci arriva da Varsavia è un teatro che riporta incontri e scontri di idee e visioni lungo un crocevia tra un passato complesso e un futuro incerto, fra la crisi europea e i rapporti sempre più confusi con il resto del mondo. Al centro e, contemporaneamente, ai margini di questo scenario c’è l’uomo, nell’aporia di assecondare la sua individualità senza tradire una società che richiede di rinunciare a sé e prendere posizione nell’opinione delle masse. La parola, come sempre, si fa carico del peso della contemporaneità e diventa pietra, arma da lanciare e base per costruire.
2010. Due uomini e una donna fanno una partita a Taboo, popolare gioco di carte in cui si deve far indovinare all’altro giocatore la parola appena pescata, suggerendola senza elencare le altre cinque presenti sul cartoncino. Siamo all’esterno del monastero di Niepokalanów, qualche decina di chilometri da Varsavia, in un’opera in cui si parla di aborto, religione, diritti e abusi. Il simbolo, potentissimo, di un universo che teme di aprir bocca su tematiche come l’interruzione di gravidanza vissuta in prima persona, in conflitto con quello di un mondo politico che, per cancellare il diritto all’aborto, ricorre al terrorismo psicologico e alle fake news. «Ho studiato antropologia a lungo: i tabù esistono, in ogni epoca e società, e non possono essere eradicati. Tutt’al più possono cambiare, che è quello che sta succedendo in questa società. Fino a qualche anno fa non avremmo parlato della Chiesa e degli scandali sessuali; ora è tutto cambiato, ci sono dei libri su questo argomento», racconta a PAC Anna Wakulik, autrice di A Time To Reap.
Già nel 2013, presentando la prima del testo al Royal Court di Londra (video), la drammaturga aveva parlato del dibattito sull’aborto in Polonia, definendolo «moderatamente aperto, ma mai affrontato in termini di esperienza personale». Cos’è cambiato in questi sei anni? «Tre anni fa c’è stata, in Polonia, una protesta in cui, per settimane, migliaia di donne hanno marciato con degli ombrelli neri (nda: contro un disegno di legge proposto dal conservatore Witold Czarnecki, che chiedeva l’annullamento del già restrittivo diritto all’aborto). Anche lì il dibattito era incentrato unicamente sul diritto della massa, senza attenzione per l’individuo. C’è stato sollievo per la bocciatura del disegno, che in realtà non ha provocato un cambiamento radicale della situazione: non c’è stata la nascita di una nuova consapevolezza, si è solo evitato che accadesse il peggio».
Una situazione politica che lega anche l’Italia. Non è una novità che, anche qui, l’emarginazione di determinate categorie coinvolte in un dibattito etico passi innanzitutto da una settorializzazione verbale, tra “buonisti” e “risorse” e accuse di fascismo e comunismo. Nella specifica questione dell’interruzione di gravidanza, i manifesti appesi per le strade polacche in A Time To Reap, raffiguranti un neonato morto spacciato per un feto di poche settimane abortito, ci riportano tragicamente al recente scandalo dei manifesti pro-vita a Roma e alle polemiche sulla disinformazione sulla legge 194 diffuse nelle sedi mediche e scolastiche.
Ed ecco che si parla di verità e fake news: «Penso che la verità sia uno degli elementi più importanti nei miei testi. Non l’ho deciso: il mio non è un teatro d’indagine, non sono una ricercatrice. Mi interessa esplorare, con la mia scrittura, problemi universali e morali». In The Sentence, la ricerca di una verità taciuta e dolorosa da riscoprire avviene con i personaggi che accettano di interpretare i testimoni di quel passato, spesso scontrandosi con il dover riportare una visione dei fatti diversa dalla propria. «Non penso che esista una verità unica» continua Wakulik «Siamo composti di un pensiero che è emotivo, istintivo e razionale allo stesso tempo. Se ti piace definire la realtà razionalmente puoi farlo, ma può capitare che ti sbagli. Può capitare che qualcuno ti faccia notare che agisci diversamente da come parli. Ogni mio personaggio ha una visione diversa del concetto di verità, vive tutto secondo la sua prospettiva, che non sempre è quella che racconta. Per questo ritengo che l’ipocrisia sia un altro dei cardini della mia scrittura».
Il continuo focus che Anna riporta sul personaggio/individuo più che sul personaggio/simbolo, nelle sue parole e nei suoi testi, riassume la tendenza del teatro polacco a non ricalcare la vita politica e sociale di un Paese, ma a intercettarne le storie di chi vive i cambiamenti sulla sua pelle. Un dibattito che mette di nuovo l’individuo al centro, che ci obbliga a prendere la strada più complicata: metterci in discussione, esporre al rischio della contraddizione le nostre idee, rinunciare alla certezza di non sbagliarci mai. Usare le parole come pietre per ferire noi stessi.