ELENA SCOLARI | La Sacher torte è scura, ricoperta di una glassa al cioccolato, liscissima, come un patinoire. Non ci sono decori, tutt’al più c’è scritto Sacher in corsivo (gli austriaci son precisi); nell’interno, a metà, la sofficità della pasta è interrotta da un sottile strato di marmellata all’albicocca. Buonissima.
Al Sacher Cafè di Vienna si trovava la Torte fin dal 1832 (fu inventata per il principe von Metternich); allo stesso caffè, alcuni decenni dopo, a volte si trovava anche Thomas Bernhard (1931-1989), vittima della sindrome che descrive nel suo Il nipote di Wittgenstein:
Nei caffè letterari c’è un’aria fetida, che irrita i nervi e uccide lo spirito, e io in quei caffè non ho mai imparato niente di nuovo, sono sempre stato soltanto infastidito e molestato e più che mai assurdamente immalinconito. Nel Sacher invece nessuno mi ha mai infastidito, immalinconito o anche solo molestato, e molto spesso sono perfino riuscito a lavorare al Sacher, e ho lavorato a modo mio, non nel modo in cui si lavora nei caffè letterari.
Lo scrittore voleva evitare certi caffè viennesi (specialmente quelli letterari, da rifuggire) perché sapeva di trovarci persone come lui, scrittori, letterati, vari se stesso, e vedere come in uno specchio ciò che più lo inquietava era un’esperienza che insieme lo spaventava e lo attraeva; infatti finiva per andarci, in quei caffè.
Il preferito dopo il Sacher era l’Ambassador. Sulla terrazza, lui e l’amico Paul Wittgenstein occupavano ore in un passatempo sublime: osservavano non visti il passeggio dei viennesi e li accusavano. Sì, li accusavano! Dileggiavano la loro imbecille ingordigia, li tacciavano di essere noiosi, inetti, malvestiti, di essere tronfi nella loro austricità. Ogni passante riceveva la sua accusa. Dovevano divertirsi molto quei due. Ma era un modo, il loro, di amare spietatamente gli umani.
Umani solo apparentemente scherniti ma di cui non si può fare a meno: il protagonista del monologo alterna il clima cittadino di Vienna a quello della villeggiatura campagnola ogni due settimane, vorrebbe essere sempre dove non è; vuole prima ripulirsi dalle chiacchiere vuote della città (e dei caffè) e poi ha bisogno di rituffarcisi perché silenzio e natura gli vengono presto a noia.
Questa insoddisfazione esistenziale emerge anche dal romanzo Il nipote di Wittgenstein, l’adattamento per la versione teatrale con Umberto Orsini in scena al Piccolo Teatro Grassi (fino al 22 dicembre) è a cura di Patrick Guinand, anche regista. La trasposizione è fluida, rispecchia la vivacissima e pungente verbosità dell’autore, grazie alla bella traduzione di Renata Colorni.
Umberto Orsini pare sia sempre stato lì, su ogni palco che calca, sciorina come se nascesse in quel momento un testo complesso, fatto tutto di riflessioni, ricordi, vividi quanto sarcastici, come fossero suoi. E suoi lo diventano, come lui diventa Bernhard per 80 minuti ogni sera. Sa tenere il giusto punto tra distanza e immanenza ai concetti che esprime. Sì, perché con l’alta tensione linguistica di Bernhard devi riuscire a dare l’impressione, fragilissima, di non credere a qualcosa che affermi con profonda convinzione. Sottilissima fune recitativa dalla quale in pochi non cadono.
La storia che Orsini racconta è quella del sottotitolo: l’amicizia tra Bernhard stesso e il nipote del filosofo Ludwig, l’autore del Tractatus logicus-philosophicus. I Wittgenstein erano una famiglia di personcine particolari e il buon Paul era matto. In uno dei passaggi più belli del testo si dice che forse anche il filosofo era matto ma Ludwig ha messo il proprio cervello (e la propria speciale follia) in pubblico, Paul invece lo ha messo in pratica. Anche il protagonista ipotizza di non essere esente da pazzia, la differenza è tra il governarla e il lasciarsene governare.
La scena, di Jean Bauer, è un interno di casa, dove Orsini/Bernhard si muove tra un divano, una poltrona, un armadio a muro con gli abiti che cambia durante la narrazione. La parete è un semicerchio che racchiude lo spazio. C’è una finestra di lato, continuamente aperta dallo scrittore e continuamente richiusa da una donna, personaggio muto (Elisabetta Piccolomini, a metà tra una governante e un’infermiera, in abiti severi); questa donna è nel romanzo «la persona della vita» per il protagonista, amica anche di Paul, solamente citata ma a cui non viene mai data parola e che non compare mai effettivamente. La regia di Guinard fa qui invece una forzatura rispetto al testo e sceglie di metterla in scena, benché priva di battute e di reale interazione con Orsini. Lo veste, gli porge gli abiti, rassetta, spolvera; è una sorta di contrappunto silente che rappresenta la vita esterna, fuori dai pensieri di lui. E fuori di lui devono uscire le idee, fuori dalla finestra, che per questo deve rimanere aperta, altrimenti si crea quell’ingorgo che può portare alla pazzia.
La pazzia di Wittgenstein è sempre definita “cosiddetta”, lo spettacolo assume infatti i contorni di un omaggio sincero, finanche commosso, all’amico Paul, con il quale il protagonista ha condiviso episodi significativi e anche spassosi (esilarante il racconto della gita alla ricerca, vana, di una copia della Neue Zùrcher Zeitung percorrendo centinaia di chilometri tra insulse cittadine austriache) e che ritrova, a sorpresa, nella clinica Altura Baumgartner: il primo è degente nel Padiglione Hermann destinato ai malati polmonari, l’altro nel padiglione Steinhof, destinato ai malati mentali.
La «cosiddetta malattia mentale» di Paul è la ragione dei suoi numerosi ricoveri. Lucida e dolorosa la descrizione del paradosso per cui il paziente Paul viene dimesso non quando è ristabilito ma quando non si regge più in piedi, reso innocuo dall’effetto dei pesanti medicinali somministrati.
Orsini ci mette a parte, come in una lunga biografia personale, dello sprezzo che condivideva con l’amico per le accademie, per i premi, per le commissioni (inevitabilmente composte da incompetenti) che premiano senza nemmeno riconoscere il premiando quando entra in sala: «Accettare il conferimento di un premio altro non significa che lasciarsi cagare in testa perché in cambio si è ottenuta una certa somma di denaro». Questa umiliazione è concessa fino ai quarant’anni di età, non oltre.
Lo “scrittorello”, come fu definito da quegli accademici delle Scienze, è sopravvissuto a Paul Wittgenstein, e ci confessa – con disgusto verso se stesso – di non aver voluto avvicinarglisi quando lo ha intravisto, malato e prossimo alla fine, in un parco, perché la morte era già sul suo volto. Troppo evidente per poterla affrontare.
Hanno trattato sempre con delicatezza e prudenza la loro amicizia, che sapevano essere fragile; un’amicizia che si romperebbe, più ancora che con la morte, se Bernhard andasse sulla tomba di Paul.
E se andrete a Vienna, al caffè dell’Hotel Sacher, scegliete il salone di destra: ci sono i quadri migliori.
IL NIPOTE DI WITTGENSTEIN
Storia di un’amicizia
di Thomas Bernhard
traduzione Renata Colorni
adattamento e regia Patrick Guinand
scene Jean Bauer
con Umberto Orsini e con Elisabetta Piccolomini
produzione Compagnia Umberto Orsini
In scena al Piccolo Teatro Grassi fino al 22 dicembre 2019