SILVIA ALBANESE | Bologna, 8.12.2019 Th!nk P!nk Festival è arrivato alla sua seconda edizione, e in 10 giorni a novembre, mese in cui ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, ha attraversato ben 3 città: Milano, Nuoro, Bologna. Un progetto di Fattoria Vittadini ideato e diretto da Francesca Penzo, Th!nk P!nk è un festival che sviluppa reti e alleanze per celebrare un femminile inteso come principio ed energia presente in tutti noi e in tutto ciò che accoglie, crea e produce abbondanza di intenti e pensiero. Questo festival si riappropria del rosa e ne fa pensiero generativo di uno spazio inclusivo, partecipato, multiforme, diffuso, emancipando questo colore dallo stereotipo di genere, facendone il colore dell’accoglienza e della tutela, per celebrare un’idea di diversità umana e artistica. Il seme dell’olmo che pervade la grafica del festival, ideata da Noemi Bresciani, ci comunica la possibilità di volare per chilometri prima di radicarsi, ci parla della possibilità di fiorire anche molto lontano da dove si è stati generati. Proprio ieri Sara Prandoni e Riccardo Olivier hanno ritirato a Padova il Premio Rete Critica come miglior progetto di comunicazione 2019.
Il lavoro collettivo di Fattoria Vittadini ne fa senza dubbio una realtà unica e capace di azioni fortemente innovative anche in termini di comunicazione, progettualità, innesco e cura di reti, creazione di contesti accoglienti e ricchi di contenuti. Essere una coreografa o un coreografo oggi non vuol dire solo danzare e far danzare, mi ha detto Francesca Penzo, bensì realizzare contenuti e progetti, lavorare per il pubblico: in questo senso coreografare significa tracciare segni per la collettività, dialogare in modo inclusivo con i territori che si attraversano. La scrittura dei corpi diventa anche una drammaturgia che disegna percorsi possibili per chi partecipa alle azioni proposte: laboratori, spettacoli, mostre. E i semi che sono stati piantati a partire dal 14 novembre a Milano riverberano in azioni che si svolgeranno nell’arco di un intero anno: #FOLLOWTHEP!NK, segui il rosa.
6.1. JULIE, rituale di evaporazione Il mio attraversamento avviene sulla soglia dell’inizio, il 14 novembre in Fabbrica del Vapore, in una Milano piovosissima; ad accogliermi al DiDStudio di Ariella Vidach c’è Erica Meucci, seduta nello spazio in attesa, così come la vedi in questa foto. Lei attende, mentre la vita accade sotto i suoi occhi: persone che entrano, si siedono, si tolgono giacche, sciarpe, cappelli. Ciò che non vedi nella foto sono due osservatori privilegiati che abitano la soglia tra lei e noi spettatori, volgendo a noi le spalle, a lei lo sguardo: sono un uomo e una donna vestiti di nero, ai due lati dello spazio scenico, ciascuno con una propria consolle, entrambi con la gonna (Gaia Ginevra Giorgi e Riccardo Santalucia). Due figure femminili e una figura maschile: la stessa triade della Julie di Strindberg (1888), da cui ha origine il rituale di evaporazione predisposto da I Figli di Marla. Un sorprendente e ben riuscito primo studio ideato da Marla Francis La Spada che mi attraversa con efficacia per la chiarezza e la definizione quasi chirurgica con cui mette in scena la tragedia di Julie portandomi ad abitare l’inconscio della protagonista immersa in un limbo bianco, tesa tra la realtà che la circonda e l’irrealtà del suo desiderio. Non occorre conoscere l’atto unico di Strindberg per godere di questa riscrittura che integra la danza, il suono e la parola poetica immettendoli in un disegno scenico di grande pulizia e rigore che scompone la linearità del tempo.
Julie ha attraversato la storia della letteratura francese, da Jean-Jacques Rousseau al Marchese de Sade, prima di arrivare a Strindberg: questo nome mi sembra essere simbolo di un femminile che vive e incarna il conflitto tra il potere, così come severamente regolato nelle relazioni tra le classi sociali, e il desiderio del corpo. Julie ou la Nouvelle Héloïse nel romanzo epistolare di Rousseau (1761) è una nobile che si innamora di un uomo di una classe sociale inferiore: il loro amore viene negato e represso, con grande sofferenza del corpo di Julie. Il Marchese De Sade rilegge il romanzo di Rousseau e Julie diventa Juliette, una giovane donna di bassa estrazione sociale, come la sorella Justine. A entrambe viene dedicato un romanzo e numerose sono le riscritture, ma per farla breve, mentre Justine prova in tutti i modi a rispettare le regole della società e a perseguire la virtù, finendo costantemente vittima, testimone e complice di soprusi e perversioni da parte del suo nobile padrone, la sorella Juliette, scegliendo invece di assecondare le perversioni del proprio padrone senza opporre resistenza, vive una parabola del destino molto più fortunata: non solo sopravvive, ma da umile serva diventa una nobile. Una parabola discendente e una parabola ascendente dunque, e la fortuna è riservata a chi non sottomette il corpo a un ideale di bene e di giusto sancito da norme sociali imposte ma non rispettate.
6.2. Immersione La performer è sdraiata su un fianco, vestita di bianco, su un tappeto danza bianco; su di lei una nuvola di fumo, o di vapore. Attraverso di lei gli sguardi di due figure nerovestite che abitano la soglia tra lo spazio scenico e lo spazio degli spettatori, manipolando lo spazio con il suono e la parola, attori non esposti eppure incombenti. I bassi che sento impongono il ritmo al mio cuore, mentre Julie comincia a muoversi lentamente portando la pancia e la faccia a contatto col suolo. Corpo vulnerabile esposto al mio sguardo e allo sguardo delle due figure di fronte a lei, carnefici in esercizio del proprio potere: il suono e le parole incidono la carne della performer, il cui movimento sessualizzato e alienato mi restituisce la disperazione di un desiderio vissuto proprio malgrado: energici colpi di bacino e mi scava nel ventre / l’infaticabile sacerdote del caos (così comincia la partitura poetica di Gaia Ginevra Giorgi, eseguita live). viene ancora il sonno, appiccicoso / e indomabili i miei sogni sembrano sempre senza fiato / intrappolati in una sorta di eterna rincorsa. Penetro il silenzio di Julie mentre il suono e le luci si abbassano. La vedo seguire più direzioni contemporaneamente, la vedo avere gli occhi fradici di lacrime, ma dentro. La vedo togliersi un indumento alla volta costruendo un percorso che segue un’unica direzione, frontale, definitiva, inevitabile. Il corpo si spoglia degli indumenti cessando di essere un corpo sociale, si fa corpo carne che si avvia silenzioso verso la propria fine accogliere l’avvenuto / considerare l’esistente / dire di sì. E ancora là, dove il nero si svuota / e il senso si perde / non ti hanno detto // che a morire in un salto / si fiorisce sempre.