ILENA AMBROSIO | Urlare a squarciagola, cantare, correre, ballare; e poi bere, bere vodka, tanta vodka. Essere leggeri, mostrarsi leggeri e intanto, dentro, dietro il paravento della gaiezza, (non) vivere, di insoddisfazione, di inerzia. Di rimpianti. Molto probabilmente Čechov avrebbe asserito che è molto più frustrante e drammatico – in senso teatrale anche – un rimpianto di un rimorso. La vita che avremmo potuto avere, le persone che saremmo potute essere…
Potenzialità inesplose intessono la drammaturgia cechoviana, e il capo del filo è già in Platonov. Un’opera impossibile, è stata definita, il frutto acerbo di un Čechov appena ventunenne; complessa: duecento pagine, ventuno personaggi, temi che si intrecciano e si intricano.
Complessità che è stata per Il Mulino di Amleto un ennesimo laboratorio – anzi cantiere, tenendo conto del progetto in corso sull’opera di Ibsen – di sperimentazione del proprio modo di incontrare i classici: interrogarli, sulla carta, con lo studio e i riadattamenti (Marco Lorenzi con Lorenzo De Iacovo in questo caso), e sulla scena con i corpi e le voci, liberi nelle improvvisazioni (un lavoro che è valso alla compagnia la finale al Premio Rete Critica 2019). Rispetto, fiducia in questo domandare, un abbandono per il quale l’Autore e la sua Opera non sono piegati al servizio di una lettura costruita a priori ma si spalancano tal quali per un affondo alla ricerca del tema o dei temi fondanti e fondamentali che tali possono essere ancora. L’universalità, questa etichetta oramai logora quando si parla dei “Padri”, riacquista colore e senso scaturendo da un dialogo reale, continuato, concreto con quel materiale, quasi sviluppatosi senza soluzione di continuità dall’allora all’ora.
Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove. Nel sottotitolo il tema, e che tema! Umano per eccellenza ma anche eminentemente cechoviano. Una sehnsucht privata di qualsivoglia connotazione di eroismo romantico, declinata nel quotidiano di vite che aspirano a… qualcosa – «perché non avete fatto qualcosa di più… di buono… di valido?» chiede con schietta ingenuità Sof’ja a Platonov – mentre restano impelagate nella mediocrità. In Platonov tutto questo c’è già. È come se Čechov avesse realizzato un archivio – paradossale se pensiamo che l’archivio serve a contenere il già esistente – di tutto il materiale umano e scenico che sarebbe confluito nelle grandi opere successive: la calura asfissiante e la pioggia, una tenuta messa all’asta, ballare; il desiderio di partire, di scappare – perché è altrove la felicità – un medico alcolizzato, anziani che professano il “erano altri tempi”, il danaro… Tutto ciò che saranno Il Gabbiano, Zio Vanja, Tre sorelle, Il Giardino dei ciliegi è già li, in quelle pagine giovanili rifiutate da un’attrice evidentemente poco lungimirante.
Con fiducia e dedizione Il Mulino accoglie tutto, lo osserva con la lente delle opere cechoviane della maturità, lo filtra, poi, con la tela del proprio particolare sentire, quello dell’adesso che ha trovato nell’allora qualcosa in cui specchiarsi, e lo porta in scena. Ci sono i fiumi di vodka, persino offertaci prima dell’ingresso; a dirci il caldo una spirale anti zanzare e un ventilatore; sulle pagine di un Sole 24ore l’annuncio della messa all’asta della tenuta dei Voinìtseva; in un tango argentino si esercitano gli interpreti mentre gli spettatori entrano in sala; il tempo che passa inesorabile, che corre verso il drammatico epilogo della vicenda ma anche dell’esistenza, è un tic tac continuo, che riempie l’aria e la ingoia privandoci a ogni ticchettio di un respiro; che scandisce il tempo dell’azione e della vita assieme alle splendide tracce musicali mixate dal maggiordomo/dj/tecnico Jakov/Giorgio Tedesco.
Ancora, la doppiezza della vita, l’insanabile frattura tra ciò che è e ciò che poteva essere, tra ciò che si vorrebbe e ciò che si deve è un oggetto scenico: una vetrata, oltrepassando la quale – di volta in volta collocata in fondo o quasi in proscenio – si è l’una o l’altra cosa. Al di là della vetrata, fuori, mentre dentro gli altri banchettano, Sof’ja e Platonov si promettono di fuggire; al di qua della vetrata, dentro, mentre fuori ci si diverte, Glagol’ev padre incalza Anna con le sue avance. Un limitare che genera contemporaneità di eventi scenici (un po’ come accadeva con il camerino retrostante la scena nel Misantropo) che sollecita l’attenzione, induce a osservare, a spiare quasi, per scorgere lo sguardo di sottecchi, il gesto furtivo; per cogliere la coralità del lavoro che è specchio della complessa drammaturgia della vita.
E anche oggetto interagente con i personaggi, che ne stabilisce gli spazi di intimità o di divisione, di distanza – anche acustica rendendo ovattate le voci di chi vi sta dietro. Un filtro e insieme un amplificatore di prospettiva così come le immagini proiettate dal cellulare di Serghèi, che catturano, ingigantendoli, i particolari che potrebbero sfuggirci e arricchiscono la nostra visuale della prospettiva dei personaggi.
Loro, i personaggi (ridotti a sette, ma forse sarebbe meglio dire “condensati” in sette), sono perfette declinazioni di paradigmi. Il Platonov di Michele Sinisi è, insieme, l’assoluto eccesso e il più misero difetto. Non ha freni nei momenti di irruenza – rabbioso e folle contro Glagol’ev per difendere il padre defunto –, travolge Sof’ja con l’impeto di una passione rinnovata, mai sopita (a detta sua), e sopraffà persino sé stesso con picchi improvvisi di vitalità: «Possibile che per me sia giunto il momento in cui ci si accontenta solo dei ricordi? Possibile che per me sia già la fine? No! Dio non voglia! Meglio la morte devo vivere vivere ancora, sono ancora giovane io!» – un crescendo che esplode in A Violent Sky di Apparat: una frecciata al petto!
Ma nulla riesce a frenare neppure la sua indolenza, l’apatia, un’autocommiserazione consapevole che ha del filosofico e dell’ironico: «Forse non son venuto al mondo per fare… Il mio compito è stare immobile e aspettare, perché sono gli altri che prima o poi vengono a sbattere contro di me e si fanno male».
Gli fa da contrappunto il suo (inconsapevole) rivale in amore: Sergej è tutto entusiasmo, tutta leggerezza, tutta felicità, «Quanto sono felice!» ripete di continuo. Beata ignoranza, verrebbe da dire, ignoranza (etimologica, s’intende) di ciò che gli accade intorno, gaiezza (piacevolmente ingenuo e sopra le righe Elio D’Alessandro) che si giova dell’ingenuità del non (voler?) capire e del non vedere, quasi che la fotocamera del suo smartphone metta un filtro anche tra lui e la realtà. Persino di fronte all’evidenza, una pistola – la ricorrente pistola di Čechov – puntata contro i due amanti colti quasi in flagrante si rivela uno scherzo, un gioco.
Glagol’ev padre (in stile imprenditore da movida, centratissimo da Stefano Braschi) e figlio (Angelo Maria Tronca, sapientemente maligno e infantile) sono lo scontro generazionale – eloquenti le Converse blu elettrico del giovane – ma anche gli interessi subdoli, la malizia.
Osip, il ladruncolo, eppure onesto ed “etico”, che getta i soldi ricevuti per ammazzare Platonov perché è per punirlo della sua immorale scorrettezza che vuole farlo; che si tira indietro, poi, perché non ha cuore che l’omicidio avvenga davanti alla moglie. Una particolare saviezza la sua, un equilibrio che gli vale anche il ruolo di narratore, di connessione tra gli atti nonché di chiusura (abilmente poliedrica l’interpretazione di Yuri D’agostino).
E poi le donne…
Le tre interpreti brillano nell’incarnare tre profili umani e psicologici tanto distanti (antenati delle sorelle Prozorov) quanto vicini sono i loro cuori nell’amare lo stesso uomo. Roberta Calia/Anna è affascinate nel suo ruolo di padrona di casa (e di sé) sempre sorridente, ammirevole nella sua fermezza di donna pronta a svendersi per preservare ciò che ha – «O la tenuta o l’onore!» –; ma muove a una compassionevole pietà quando, tolta la maschera, resta sola e rifiutata. Stefania Medri/Saša perfetta immagine di moglie devota e accondiscendente, intensa nel frangente in cui gli occhi le si aprono (unico dei personaggi a mutare) sulla viltà e pochezza dell’uomo che ha accanto. E poi Sof’ja: allegrezza esasperata, incontenibile, infantile: corre, salta, danza, è a più riprese portata in braccio, a cavalcioni, in spalla da qualcuno. Eppure la sua risata luminosa fa trasparire l’ombra della scontentezza per la propria vita, una malinconia per ciò che avrebbe voluto e che crede di (ri)trovare in Platonov: commovente Barbara Mazzi e ammirevole nel far convivere sulle espressioni del proprio viso i mutamenti di un giovane animo in tumulto.
La compagnia trova un ispirato amalgama nell’incarnare questo affresco umanamente variegato in cui l’ilarità si intreccia al dramma senza forzature; comunica con efficacia la spensieratezza di una combriccola di amici in vacanza, la leggerezza tanto ostentata da rivelarsi, poi, forzata; e allora le frustrazioni, le inquietudini, i lati oscuri emergono con altrettanta potenza.
Il dialogo con Čechov progredisce per tutta la rappresentazione in una climax che conduce lì, al momento in cui Sof’ja impugna la pistola e la punta contro Platonov. Ma ecco lo scarto. «Normalmente Platonov muore… così quasi per caso… ma non questa sera…». Osip/Narratore tira le fila del racconto, di questa storia ma anche di quella dell’incontro tra lui, i suoi compagni e colleghi, Lorenzi, De Iacovo e Čechov. In tutte le sue opere, a partire da Platonov, compare sempre una pistola, tranne nell’ultima «come se Čechov avesse bisogno che noi facessimo qualcosa di diverso che morire… La vita… Perché non viviamo come avremmo potuto? Finché non avremo una risposta a questa domanda noi abbiamo bisogno, abbiamo voglia di continuare a vivere».
La distanza di quel dialogo con “il classico” si accorcia; dalla ricerca, dallo studio volto a scandagliare, dall’ascolto fedele e fiducioso è scaturita una risposta. Ecco Anton, noi – e ora siamo proprio noi a parlare – abbiamo incontrato le tue parole, le abbiamo incarnate, dette, abbiamo colto i tuoi segni, li abbiamo fatti nostri pur restando loro fedeli. Così abbiamo capito; le tue questioni, le tue domande le abbiamo potate su questo palcoscenico ed è questa la nostra risposta: vivere.
Da un annaffiatoio, la pioggia, finalmente, a rigenerare dalla calura. Nothing’s Gonna Hurt You Baby cantano i Cigarettes after Sex. Si può danzare, placidamente ora, che forse non sarà la felicità ma, almeno, sarà la vita.
PLATONOV
Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove
uno spettacolo di Il Mulino di Amleto
regia Marco Lorenzi
con Michele Sinisi
e con Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D’Agostino, Barbara Mazzi, Elio D’Alessandro, Stefania Medri, Angelo Maria Tronca
adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi
regista assistente Anne Hirth
style e visual concept Eleonora Diana
disegno luci Giorgio Tedesco
costumi Monica Di Pasqua,
foto Manuela Giusto
una produzione Elsinor Centro Di Produzione Teatrale, Festival delle Colline Torinesi – Torino Creazione Contemporanea, TPE-Teatro Piemonte Europa con il sostegno di La Corte Ospitale – Progetto Residenziale 2018, in collaborazione con VIARTISTI per La Residenza al Parco Culturale Le Serre