MARIA FRANCESCA GERMANO | Tutto esaurito al Petruzzelli di Bari per il debutto dello spettacolo Il Gabbiano di Čechov, nella regia di Licia Lanera. Secondo atto della trilogia russa dal titolo Guarda come nevica; iniziata con Cuore di Cane di Bulkacov terminerà nell’ultimo atto con Le poesie di Majakovskij.
Ho una singolare avversione per gli accrediti. Mi piace comprarmi il biglietto. Fare la fila. Una specie di pulsione culturale masochistica; per quindici euro mi tocca quindi un posto nel “plebeo” palco laterale di terz’ordine.
Dicono però che ci si può anche sporgere un pochino oltre la balaustra. Ma la signorina Rottermaier con uno sguardo cattivissimo mi colpisce con il puntatore laser sottoponendomi al pubblico ludibrio. (!!)
Con le luci di sala ancora accese, una voce maschile fuori campo fa un prologo di qualche minuto. Ma ai palchi arriva soltanto un suono ovattato e confuso. Non si capiscono le parole. Gli spettatori si guardano. Qualcuno si chiede se sia un effetto voluto.
Poi il buio. Emoziona sempre la silenziosa apertura del sipario rosso e oro sullo spazio scenico tradizionale. In perfetta simmetria ai lati del palcoscenico sono disposti dei lettini da mare grigi su cui si distribuiscono i personaggi. Al centro una piccola pedana nera su cui insiste un microfono con asta. Sul fondale scuro un quadro molto grande. Una vista con lago. Ricorda uno dei paesaggi seicenteschi di Bloemen (scene di Riccardo Mastrapasqua). La voce calda di uno dei personaggi (Dorn – Fabio Mascagni) intona la canzone anni sessanta di Bruno Martino: «Estate, sei calda come i baci che ho perduto. Sei piena di un amore che è passato. Che il mio cuore vorrebbe cancellar…». Gli attori sostano a gruppetti sui prendisole; indossano lievissimi abiti in una meravigliosa palette di tinte armoniche e cangianti dal bianco al grigio scuro, con toni di celeste e tortora (costumi di Angela Tomasicchio). Uno spazio immobile, statico, che ci proietta nella soffocante fissità estiva dei primi atti del dramma che Čechov scrisse nel 1895.
Nella tenuta di campagna in riva al lago di Pëtr Sorin (Marco Grossi) – un magistrato in pensione pieno di malanni – in cui tutto sembra procedere a fatica, si intrecciano le insignificanti vite dei personaggi: sua sorella Irina Arkadina, attrice famosa, bella, frivola e avara, che convive con il suo amante Boris Trigorin (Vittorio Continelli), dozzinale scrittore di successo; il figlio ventenne di Arkadina, Konstantin Treplev detto Kostja, aspirante drammaturgo innamorato della giovane attrice Nina Zarečnaja. Maša la figlia dell’amministratore della tenuta, il maestro Medvedenko e Dorin un medico dal bell’aspetto.
Nel comune denominatore che è l’Arte in tutte le sue declinazioni, in un circolo vizioso di romantica ineluttabilità si dipanano le passioni dei protagonisti: Medvedenko (Mino Decataldo) ama Maša che a sua volta ama Kostja, che fa la corte a Nina che ama Trigorin che sta con Arkadina che è amata da Dorn.
Mentre cerchiamo di riconoscere i personaggi nell’intreccio drammaturgico, già dal celebre incipit di Medvedenko e Maša: «Perché insistete a vestirvi di nero?» «È il lutto per la mia vita. Sono infelice», capiamo però che qualcosa nel sonoro non va come deve. Le battute degli attori arrivano distorte, confuse. Non si sente nulla. Facciamo fatica. Le voci microfonate hanno un riverbero disturbante. Qualcuno si lamenta. I vicini ci chiedono se è solo un problema dei palchi. Ci affacciamo per capire; nel secondo blocco di poltrone, qualcuno si alza, lascia il teatro.
Com’è possibile che un teatro come il Petruzzelli, il più importante della città, il quarto in Italia per grandezza, possa avere un così grave problema di acustica tanto da rendere del tutto incomprensibili le battute degli attori e da compromettere la riuscita di uno spettacolo a cui per mesi e mesi qualcuno con cura e fatica si è dedicato?
Mi viene in mente che l’opera, nel suo debutto a Pietroburgo, fu disastrosamente fischiata. Si racconta persino che un’attrice, intimorita dai fischi del pubblico, perse la voce e che Čechov, deluso, lasciò la platea prima che la rappresentazione terminasse. Forse questo può essere di buon auspicio per Licia Lanera, tra l’altro in nomination per il premio UBU 2019 come migliore attrice per la sua performance in Cuore di cane.
Mi sforzo di sottotitolare quello che vedo comparandolo con il mio copione mentale. Licia Lanera è una Arkadina aspra, terrigna, sfrontata. Le mani sovente in tasca, il busto spesso proteso in avanti con le ginocchia schiuse e gli avambracci in movimenti sussultori accusatori; mimica o forse gestualità volontaria a rendere la sicurezza spregiudicata di una donna disposta anche a criticare aspramente il suo stesso figlio pur di «strappare il primato nel campo artistico» – parole dello stesso Kostja (Jozef Gjura) – e di non invecchiare. In un movimento che distrae e che riporta lo spettatore dal personaggio alla persona troppo spesso si tira su il cardigan che le cade sul bel busto.
La storia nella drammaturgia di Lanera si svolge in due atti contro i quattro del copione originale. Tra il terzo e il quarto intercorrono due anni e le vicende dei personaggi vengono rese attraverso il racconto degli altri.
Intanto noi stoici resistiamo. Nel secondo atto è inverno. Nevica. Sul palco gli attori recitano immobili davanti a otto microfoni. Indossano cappotti scuri e cappelli di fogge diverse. Sullo sfondo, il quadro del lago, personaggio muto del primo atto, è storto, sta per cadere. Forse metafora didascalica di quella decadenza onnipresente nel dramma. Una lampada a luce calda con la frangia di seta, la stessa usata nella scenografia di Cuore di cane, illumina la parte sinistra della scena. Unica fonte di calore nel gelo di fondo. I fiocchi fluttuano tra i fasci di luce ovattata. Le rarefazioni luminose nel bellissimo disegno luci di Cristian Allegrini creano una caliginosa malinconia che si deposita su ogni dove, insinuandosi anche nei luoghi in cui le parole non riescono ad arrivare. Il tessuto musicale di Qzerty Danisi – candidato al premio UBU 2019 come miglior progetto sonoro sempre per Cuore di cane – nei momenti di immobilità diventa drammaturgia sonora, capace di creare movimento in assenza di gesti.
Nonostante la fatica di seguire uno spettacolo volutamente statico, fermo, violentemente stagnante, la cui parola ci è arrivata deformata, deturpata, svilita, la liricità di alcuni frame resta impressa nell’immaginazione: il tonfo sordo e cadenzato del microfono che Nina (Giulia Mazzarino) si batte sull’esile sterno. Il garrito doloroso e affrancato del gabbiano da Nina stessa incarnato (in russo Čajka, gabbiano, è un sostantivo femminile). La lite tra Arkadina e Kostja, provata, patita, toccante, in cui i due lottano ed entrambi perdono; il richiamo tormentoso di Maša (Alessandra Di Lernia) che invoca Kostja tra lande desolate di grigia esistenza. La fotografia quasi da resa cinematografica: architettura mobile di corpi umani, esatte geometrie prospettiche a denunciare ferocemente il nulla che minaccia le scialbe esistenze dei protagonisti e la loro insana abitudine di vivere.
GUARDA COME NEVICA
2. IL GABBIANO
di Anton Čechov
regia Licia Lanera
con Vittorio Continelli, Mino Decataldo, Alessandra Di Lernia, Jozef Gjura, Marco Grossi, Licia Lanera, Fabio Mascagni, Giulia Mazzarino
musiche originali Qzerty
scene Riccardo Mastrapasqua
costumi Angela Tomasicchio
luci Cristian Allegrini
assistente alla regia Ilaria Bisozzi
co-produzione Compagnia Licia Lanera, Teatro Metastasio di Prato, TPE-Teatro Piemonte Europa
Teatro Petruzzelli, Bari
30 novembre 2019