RENZO FRANCABANDERA | Che poi, quando uno spettacolo ha stregato il pubblico, o ha segnato un’emozione collettiva, la gente non se ne vuole proprio più andare dal teatro.
Si ferma fuori, magari a parlare, fino a quando questa cosa non va lentamente via di dosso.
Un tipo, ce l’ho davanti a me insieme al suo gruppo di amici che lo prende un po’ in giro, dice che vuole tornare a casa, ritrovare su YouTube la musica che ha appena sentito eseguire dal vivo da E’Joung – Ju, e mettersi a ballare.
Gli spettatori non se ne vanno. Ancora un po’ in trance si fermano all’uscita, a parlare, a chiacchierare. L’ansioso che si accende la sigaretta per smorzare l’adrenalina, i gruppetti che ritornano a ricordare di questo o quel momento. Si arriva persino a parlare con chi non si conosce pur di condividere un’emotività che straborda.
In questa V edizione di Resistere e Creare, rassegna di danza tenutasi a Genova a cura di Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse e Balletto Civile è quello che è successo ad esempio dopo Flow, ultima creazione di CIE Linga, una delle ultime proposte della rassegna che, iniziata il 27 Novembre, si è prolungata fino all’8 dicembre.
Lasciamo per un attimo i crocicchi di spettatori in trance, facciamo un piccolo passo indietro giusto per contestualizzare.
L’edizione di quest’anno di Resistere e Creare, sottotitolata Materiale Umano, focalizzava l’attenzione sul rapporto fra uomo e società. Ad affiancare le compagnie più interessanti del panorama nazionale non sono mancati ospiti internazionali, pur con qualche defezione per ragioni di salute.
Ma alla fine, nonostante la carta ‘imprevisti’ sia uscita un po’ troppo frequentemente nelle settimane precedenti per scombinare i piani, il festival è rimasto in piedi: un ricco cartellone di danza, teatro-danza, circo, balli della tradizione insieme a workshop, incontri e eventi di accompagnamento alla visione legati a meditazione, cinema, arti marziali, arti visive, musica e letteratura,
Per dodici giorni tutti gli spazi cittadini gestiti dal Teatro della Tosse, si sono trasformati in un grande palcoscenico dedicato alla danza.
A dirigere e organizzare il tutto due donne instancabili e di grande conoscenza del panorama coreutico nazionale ed internazionale, Michela Lucenti e Marina Petrillo, che nel comporre la direzione di questa edizione hanno cercato «uno sguardo femminile non remissivo e non compassionevole sul mondo, anche sul mondo maschile; un contenitore di ricerca espressiva a partire dal corpo (…) per opporsi ai meccanismi che debilitano le comunità sociali e culturali e per aprire nuove prospettive e possibilità».
Arrivo a Genova e percorro l’itinerario che, dalla stazione di Piazza Principe, mi porterà al Luzzati Lab dove si tengono le audizione della call per Resistere e Creare. Da Piazza Acquaverde scendo fino all’altezza della multietnica e africana Via di Prè, per scendere poi verso il porto, camminando lungo i portici Sottoripa fin oltre la Darsena, Piazza Caricamento per risalire in Via S. Lorenzo fin oltre la bellissima cattedrale dalla facciata bicroma, per poi girare in Piazza delle Erbe nelle viuzze di questo lato affascinante e profondo della città, oltre i Giardini Luzzati.
Le audizioni finali dei qiattordici progetti ammessi (la call che metteva in palio un sostegno alla produzione di 2000 euro, due settimane di residenza creativa negli spazi del Teatro della Tosse e la possibilità di presentare l’evoluzione del lavoro nell’edizione 2020 di Resistere e Creare) si sono tenute proprio al Luzzati Lab, alla presenza della giuria composta da Michela Lucenti, Marina Petrillo e Ivana Folle (Bogliasco Foundation), con le presentazione aperte al pubblico, in uno spazio fantastico e pieno di storia nel cuore dei caruggi. Quasi commuove la bellezza di questo luogo spirituale incastonato fra i palazzi antichi, alti, tipici dei quartieri antichi delle città di mare. Stupenda Genova.
La Petrillo, dopo le due audizioni previste per il pomeriggio del 7, mi trascina nelle prove di un lavoro che si terrà l’indomani e che non potrò vedere compiuto, intitolato Tutto ricomincia, sempre, ma di cui vuole farmi assaporare l’anima.
“Vedrai”, mi dice.
Entro nello spazio buio e ci sono, illuminate dagli spot a minima temperatura, le bellissime realizzazioni scultoree di Vitaliano Marchetto. Davanti a queste la danzatrice Francesca Zaccaria inarca gesti leggeri e poetici, ispirati alle movenze dell’aikido.
Al centro della sala, il maestro italiano Daniele Granone, discendente di una famiglia che con suo padre ha praticamente introdotto questa disciplina in Italia, apparentemente senza fatica alcuna, prende e proietta al suolo in continue piroette ed evoluzioni non prive di fascino acrobatico, due praticanti.
Sarah Pesca sta cercando nel buio di mettere assieme questi linguaggi diversi, al servizio di un’unica storia, quella di un incontro fra un allievo e un maestro in un dojo di aikido.
L’artista Marchetto fa dono al dojo di una delle sue bellissime opere materiche, grandi volti colossali che ricordano i colossi della statuaria greca antica ma dai tratti corrotti e imperfetti, già corrosi da un tempo che però non ne scalfisce l’imponenza.
A farlo, a scalfire le statue, mi dicono, sarà lui l’indomani, con una mazza, durante lo spettacolo, per ragionare sul bello, sulla caduta, su quanto sia difficile e laborioso creare il bello e semplice e veloce distruggerlo.
Davanti a questa azione performativa, la danza e l’aikido a raccontare il perché di una creazione che altro non è se non un contro-dono. La scrittura scenica di Pesca riunisce i tre linguaggi che Granone in origine ha immaginato potessero dialogare fra loro, e compone una creazione con alcuni momenti di intensa emozione.
Esco. Mi concedo un’altra mezz’ora nel labirinto di strade dietro il porto di Genova. Affollatissime. Il quasi natale porta in giro un’umanità avida di spesa, ma anche di uscire di casa, fosse solo per il gusto di fare due passi approfittando di una giornata fantastica.
Ho poco tempo. Cerco un pezzo di focaccia ligure, e l’antico forno Patrone di Via di Ravecca è il giusto approdo per il viandante in cerca di carboidrato storico-poetico.
Poi di lì salgo, scendo, a caso: sembra che ci si possa perdere ma alla fine no, perché l’orientamento è facile; in basso c’è il porto, in alto la città.
Se ti perdi nella città, scendi verso il porto.
Il porto è il porto. È il punto da cui poter ripartire. Sempre.
Per antonomasia.
Un altro paio di baretti dall’aria proletaria e torno alla Tosse.
Manco a farlo apposta anche lo spettacolo successivo, pensato per un pubblico anche di ragazzi, parla di arti marziali: Uroboro, di e con Simona Ceccobelli e Sebastian O’Hea Suarez, ovvero Anomalia Teatro, una compagnia nata a Torino nel 2016 che porta avanti un’idea di teatro orgogliosamente popolare.
Lo spettacolo è un viaggio poetico e divertente attraverso l’evoluzione del rapporto tra un allievo aspirante lottatore di kung-fu e il suo maestro. I due sul palco giocano e scherzano ma fra clownierie e piccola acrobatica marziale tirano fuori qualche numero fisico non banale, anche perché le movenze non mitigano i gesti della disciplina, non li rallentano.
Insomma, voglio dire, cinque centimetri più vicini e quella mano gli spaccava il naso.
Ma no, riescono a non colpirsi, facendo sembrare tutto agevole, in un mondo incantato e fatto di poco.
Le cose belle nelle sequenze che intervallano la vicenda principale a quelle di alcune figure animali suggestive e in un ambiente di luci molto ben pensato, sono più d’una: nascono dall’incastro, dal progressivo dialogo fra i due umani, una rana e un coniglio.
D’altronde i primi rudimenti del kung-fu sono legati secondo la tradizione al movimento degli animali: i monaci del monastero di Shaolin, mitico luogo in cui si originarono le arti marziali cinesi, li osservavano mentre cacciavano, camminavano, mentre erano fermi a puntare le prede o combattevano tra di loro, e da questa osservazione estrapolarono i movimenti di base, che poi furono tramutati in vere e proprie tecniche. Ma al giorno d’oggi queste povere bestie sono in grado di resistere alla animalità feroce dell’essere umano e della società contemporanea?
Lo spettacolo ragiona forse anche su questo, su come a volte per trovarsi occorra un attimo staccarsi dalle abitudini del nostro mondo per cercarsi profondamente, affidandosi ad una guida. Poetiche alcune sequenze.
Bella e spesso comica, come dicevamo, la parte di movimento.
Troppi i finali, insistiti, che prolungano la creazione (non vorremmo mai fosse per ragioni distributive e per arrivare ai dannati 50 minuti!) troppo oltre il suo apice naturale, che il pubblico infatti non fatica ad individuare e dopo il quale un po’ si scolla nell’attenzione, fino a quel momento magnetica.
Basta fermarsi prima, insomma, per non fare guai. Questo vale nelle arti marziali come nelle arti sceniche.
E se proprio occorre espandere il tempo, meglio impiegarlo dando spazio al vuoto meditativo e all’assenza di simboli. La mente sarà pronta per raccogliere meglio i successivi.
Sono le 20. Passiamo per l’ingresso del teatro con i meravigliosi disegni di Luzzati, saliamo al primo piano dove il pubblico assiste a Impronte nel foyer della sala Aldo Trionfo, ovvero improvvisazioni accidentali di relazione fisica tra i danzatori di Balletto Civile e qualsiasi persona del pubblico.
«Volontari di tutte le età, naturalmente anche non danzatori: pubblico corpo. Impronta come improvvisazione ma anche come qualcosa che lascia il segno, che c’è solo per un po’ e si cancella». Bello.
Rubiamo un’oliva al banco del bar e finalmente ci tuffiamo nella prima nazionale di Flow, di Linga e Keda, spettacolo vincitore del Swiss Dance Award 2019.
Dal buio emergono in una luce fiochissima, ondeggiando come fossero fili d’erba di un prato mosso dal vento, i corpi di otto danzatori. La loro movenza sembra ispirata all’elemento naturale.
Torniamo con la mente in un flash alle creazioni di Xavier Le Roy, a quel Low Pieces visto nel 2011 ad Avignone e che ancora resta nella nostra memoria come archetipo del rapporto fra danza e natura.
Effettivamente in Flow la compagnia elvetica Linga si ispira alla natura selvaggia, al movimento degli stormi di uccelli, degli sciami di insetti, dei banchi di pesci; alla natura capace di formarsi e scomporsi in formazioni flessibili e fluide, in grado di modificarsi di velocità e direzione ma senza perdere coerenza.
I coreografi Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo fondano lo spettacolo su due elementi.
Il primo è la declinazione di questa idea coreografica calata in un gruppo che arriva a sentire un’anima collettiva, e la seconda è la presenza in scena, ai lati destro e sinistro del tappeto danza bianco, dei musicisti del duo elettro-acustico Keda, ovvero Mathias Delplanque e E’Joung – Ju, il cui album Hwal è un gioiello di musica etnoelectro. Imperdibili gli interventi di musica elettronica ad esaltare ulteriormente la grandezza esecutiva e la assoluta padronanza da parte della musicista coreana, che per un’ora ammalia letteralmente il pubblico con il geomungo.
E mentre lei suona questo antico strumento, parente della cetra, i danzatori si muovono alla ricerca di una nuova forma di organizzazione del movimento di gruppo, basata sulla coscienza collettiva nello spazio. Si creano vuoti e pieni improvvisi, la sintonia multiforme di figure umane così diverse sancisce la sua superiorità sull’uguaglianza sterile, affermazione dell’accoglienza delle differenze che non si annullano nel gruppo, ma restano visibili e valorizzate.
Imperdibile, in questa chiave di lettura, il momento in cui Ai Koyama, la storica ballerina di origini asiatiche della compagnia (ma che ha collaborato anche con Papaioannu), accenna nel finale dello spettacolo alcune movenze di danza tradizionale asiatica intonate ai suoni del geomungo, prima di essere riassorbita e inglobata in un cerchio di forze e tensioni.
In alto, sulla testa dei performer, un grande telo bianco quadrato viene fatto ondeggiare a creare una controscena mobile, un altro elemento bianco che, dialogando con il pavimento ma non parallelo allo stesso, quanto piuttosto inclinato, racchiude i segni danzati in un braciere incandescente di forma geometrica e perfetta, in cui il ritmo sonoro amplifica la sua forza.
Flow è emozionante, si interroga sulla relazione tra individuo e gruppo, sui limiti tra costruzione e istinto. Il delirio finale del pubblico in sala che continua ad applaudire per oltre cinque minuti è assolutamente giustificato.
Che poi, quando uno spettacolo ha stregato il pubblico, o ha segnato un’emozione collettiva, la gente non se ne vuole proprio più andare dal teatro. Si ferma fuori, magari a parlare, fino a quando questa cosa non va lentamente via di dosso.
Ma a volte non va via…
FLOW
FLOW
Idea e coreografia Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo
Coproduzione Compagnie linga, L’Octogone Théâtre de Pully
Interpreti Aude-Marie Bouchard, Marti Güell Vall-
bona, Ai Koyama, Andor Rusu, Manuela Spera, Csaba Varga, Cindy Villemin
Luci German Schwab
Musica Keda (Mathias Delplanque, E’Joung – Ju)
Scenografia Emilien Allenbach, Geneviève Mathier, Grégory Gaulis
Costumi Geneviève Mathier
Amministrazione Françoise Oehrli
Comunicazione Delphine Faehndrich
Durata 60 minutes
Foto Gert Weigelt, Michel Bovay
UROBORO
ll Kung Fu è di tutti. Ma non è per tutti
di e con Simona Ceccobelli e Sebastian O’Hea Suarez
Produzione Anomalia Teatro