SILVIA ALBANESE | Roma, 15.12.2019.
Il mio attraversamento del Th!nk P!nk Festival prosegue affondando le radici nella notte milanese, sempre più piovosa e tuttavia costellata di incontri a Spazio Fattoria, la porzione di Fabbrica del Vapore che Fattoria Vittadini abita e apre. Uno spazio che si sviluppa su due piani resi particolarmente accoglienti e funzionali dalla sapiente e amorevole cura tecnica di Giulia Pastore, le cui attività si ramificano in diversi ambiti legati alle attività della compagnia, ma anche al sostegno e alla valorizzazione di una fitta rete di partner e amici che qui trovano uno spazio per lavorare, creare, immaginare altre possibilità.
6.3. La forza progettuale di Fattoria Vittadini è evidente se leggi il programma del Festival: ti accorgi di quanta attenzione è dedicata allo sviluppo di opportunità, di quante persone infaticabili e creative sono coinvolte nel processo di scrittura degli accadimenti e delle esperienze proposte. C’è anche una vetrina Under35, realizzata grazie al sostegno di SIAE nell’ambito del progetto Per Chi Crea, che permette di creare e sostenere un contesto di presentazione per le creazioni di sette artiste e artisti. Si comincia con la rappresentazione della miseria umana proposta da C&C Company Carlo Massari in Beast without beauty, in cui un’immobile e impassibile figura femminile segnata dal tempo assiste allo svolgimento di una lotta impietosa per l’affermazione personale tra due giovani uomini in contesa fisica per un potere che altro non è se non sopraffazione e umiliazione di sé, un gioco delle parti da cui lei stessa non riuscirà a esimersi. La sardonica ironia, a dialogo con i Giorni felici di Beckett, si fa cinico e irriverente ritratto sociale che mi lascia a osservare un trio che si svolge al di là di uno schermo (o uno specchio) che preferisco non attraversare, nell’illusione, forse, di non esercitare mai quella crudeltà, di esserne solo spettatrice.
6.4. Il rumore di un silenzioso DIRE. Due corpi femminili seduti comodamente e morbidamente a terra, elegantemente vestite di nero in uno spazio che acquista profondità per la presenza geometrica di quattro quadrati neri – citazione da Theo van Doesburg, Arithmetic composition – che diagonalmente incidono lo spazio scenico, le cui dimensioni degradano progressivamente avvicinandosi al fondo della scena. Come a lasciarmi intuire che forse proseguono, che c’è qualcosa anche dopo, oltre il fondale, e che mi fanno pensare alla fuga degli interpretanti di cui parla Charles Sanders Peirce.
Le due donne mi parlano senza dirmi nulla, con i gesti e in silenzio, ma sono magneticamente connesse con me, con noi seduti a fare il pubblico: il loro discorso ha un senso che va oltre le parole sussurrate; parlano di spazio, di un prima e di un dopo, del corpo, di ritmo, di forme e geometrie. Un mistero, così. La prima volta che ho visto questo lavoro ero a Vadena, a Bolzano Danza nel 2017: in scena con Camilla Monga c’era Maya Oliva, e la loro danza aveva i monti sullo sfondo; adesso siamo a Spazio Fattoria con Alice Raffaelli. La ricerca di Camilla muove dalla gestualità del parlare per trascendere la parola: genera il movimento attraverso il medium della parola e lo restituisce come una danza capace di creare un’esperienza fortemente dialogica poiché sostenuta da espliciti task coreografici, tra cui quello di essere in un’attitudine molto aperta e libera, oltre che liberatoria. Più che un duetto mi sembra un trio, in cui il terzo elemento si presenta alla nostra percezione come elemento sensibile seppure non visibile: un suono fatto di percussioni e voce, elaborazione e partitura che nasce contemporaneamente alla partitura fisica. Luca Scapellato come il terzo elemento della triade semiotica, come interprete di quanto si genera dal movimento e dalla relazione nello spazio tra le due performer.
6.5. Nella notte armena di Giorgia Ohanesian Nardin e F. De Isabella. Գիշեր1 | gisher1 è uno spazio di accoglienza, riposo e libertà, morbidezza e introspezione. Mi viene offerto uno spazio con dei cuscini, illuminato da candele, pervaso dall’intenso profumo di un incenso. Mi vengono offerte delle parole da leggere, un video da guardare e qualcosa da ascoltare. Un’esperienza che mi avvolge e coinvolge tutti i miei sensi, compreso il sesto. Vorrei osservare il mondo così come lo osserva un fiore, una pianta. Da vicino e da lontano. Sentire il rumore della vita e delle cose. Il silenzio. La forma. La stasi e il movimento. Il corpo che danza, in video, è il corpo di Giorgia Ohanesian Nardin in luoghi intimi e privati oppure pubblici e aperti, ma pur sempre intimi. La sua è una danza che celebra il piacere del movimento, il piacere di sentire il proprio corpo, di sentirsi il proprio corpo. Il corpo danzante non acquista priorità sui cieli o sui paesaggi: si inscrive in un movimento più ampio di cui è cellula e manifestazione, così come lo è un filo d’erba mosso dal vento, il respiro di una capra, il movimento impercettibile delle stelle. E io sono qui, nel piacere di essere sdraiata su questi cuscini morbidi, di poter offrire al mio corpo e ai miei occhi un po’ di riposo, un po’ di quiete. Osservo e sento, respiro, come se fossi una pianta alla finestra. Finalmente uno spazio per il riposo, per il sogno, per il buio e per il vento. Osservo paesaggi armeni come se osservassi il mio orto. Solo cielo. Solo fuoco. Solo un uomo che cammina. Ovunque. Un pendolo. Un sandalo. Una strada. E io che danzo come se nessuno mi stesse guardando.
Ho recuperato le forze: posso rimettermi in cammino adesso, sotto quella pioggia che non ha mai smesso di scendere copiosa; mi immergo nella mia notte milanese, cammino lenta per guardare il più a lungo possibile il Cimitero Monumentale, scendo nell’Ade delle metropolitane che si incrociano.
Sono grata a tutto, per tanta bellezza.