ROBERTA RESMINI e ELENA SCOLARI | RR: Quel giorno, il 12 dicembre 1969, era un venerdì. Un venerdì con un grigio velo di nebbia, come capitava spesso a Milano in quegli inverni. Natale era vicino e il freddo si faceva sentire. Alle ore 16:37, nel salone della banca dell’Agricoltura in piazza Fontana esplose una bomba che causò la morte di diciassette persone e ne ferì ottantasei. Tre giorno dopo l’anarchico Giuseppe Pinelli morì precipitando accidentalmente dal quarto piano della Questura di Milano.
Piazza Fontana, la madre di tutte le stragi, quella in cui Milano e l’Italia persero l’innocenza dando inizio a un periodo buio della nostra storia.

È firmato da Renato Sarti Il rumore del silenzio, la nuova produzione del Teatro della Cooperativa, parte di un ciclo di iniziative promosse dalle amministrazioni comunali di Milano e Brescia in occasione del cinquantennale della strage di Piazza Fontana e del quarantacinquesimo anniversario di Piazza della Loggia.
“Il rumore del silenzio” è il racconto di una giornata storica e di ciò che le ha gravitato intorno, segnando per sempre le esistenze di molti: magistrati, testimoni, imputati, familiari delle vittime, avvocati…

Banca Agricoltura

ES: Sì, questo non è però uno spettacolo di commemorazione, è uno spettacolo di ricostruzione di un’epoca, perché è indispensabile provare a capire com’era la Milano di fine anni ’60: c’erano le lotte studentesche, c’era la vivacità artistica del quartiere di Brera, il leggendario Jamaica, c’erano le prostitute (mature) in via Rovello. Che ti portavano la cura di calcio per la displasia del tuo cane. Era una Milano piena di umanità e di fermento, anche politico, la lettura che Sarti ne dà è più tenera che nostalgica, non trovi?

RR: Renato Sarti, in gilet, cravatta e camicia, ripercorre la sua Milano di gioventù: lui che da Trieste si trasferisce a Milano per lavorare vivendo in affitto con altri coinquilini squattrinati, rievoca la Milano delle osterie, la musica di Jannacci, Gaber, Dario Fo. Il racconto sembra una cinepresa che restringe progressivamente l’obiettivo per portarci nel cuore dell’evento. È un racconto concitato, sostenuto, a volte sospeso, intenso ma allo stesso tempo ironico e coinvolgente.

ES: Sarti recita con il giusto affanno che fa sentire quanto frastornati, quanto confusi, quanto sorpresi tutti siano rimasti dopo quel 12 dicembre. Non si sapeva da che parte prendere, quali pesci pigliare, e poi si è deciso, in quattro e quattr’otto, di prendere i pesci anarchici, colpevoli perfetti e già predestinati.
Il respiro corto di Sarti è lo stesso che prese i cittadini di Milano e gli italiani tutti (o quasi) davanti alla tracotanza cruenta di un progetto velleitario e terribile: creare il clima per un colpo di stato, quello che sarebbe stato reso possibile se Rumor avesse dichiarato lo stato di emergenza nazionale, a favore forse di Valerio Junio Borghese, pronto al golpe che avrebbe avvicinato l’Italia alla Spagna franchista e alla Grecia dei colonnelli.
Non possiamo entrare qui nei mille rivoli di una storia intricatissima (di cui ora però sappiamo molto) ma lo spettacolo affianca la parte più cronachistica che Sarti interpreta a quella, più intima, di una donna, che ancora oggi ci testimonia la protervia spregiudicata della giustizia di quegli anni.

RR: Già: parallelamente a Sarti, Laura Curino, in abbigliamento tipico degli anni ’60 – gonna, golfino e foulard – ripercorre con lucidità e attimi di vero trasporto la storia di Giuseppe Pinelli (detto Pino) e della moglie Licia Rognini, dal loro primo incontro al corso di Esperanto, all’impegno politico, alle contestazioni operaie e studentesche, al matrimonio e alla nascita delle figlie Silvia e Claudia, fino al racconto drammatico del fermo di Pino e degli eventi che seguirono. Delicata, sensibile, commossa la prova della Curino, dotata di grande capacità artistica e carisma.

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I due e si alternano nella narrazione in modo fluido, il loro racconto sembra un walzer dove, ora l’uno, ora l’altro, conquistano il centro della scena. Talvolta danzano insieme (le musiche originali sono a cura di Carlo Boccadoro), segnando così la continuità delle vicende che stanno singolarmente raccontando. Il risultato è un ritmo equilibrato, che non rallenta mai e una narrazione che raggiunge alcuni momenti di forte trasporto.

ES: La parte di testo cui Laura Curino dà vita è forse quella più ispirata, dal punto di vista della qualità di scrittura: è come se nelle parole della sua porzione di copione ci fosse la dolcezza, tipicamente pensata come femminile, ma qui espressa dal pensiero scritto di un uomo. A Laura è riservata la bellissima riflessione di Licia Pinelli – che non sopporta si usi la parola “vedova” – sul cancellare i ricordi, quelli brutti ma anche quelli belli, sì, perché “vivere senza ricordi non mi piace ma cancellare i ricordi mi permette di vivere”. Così come la straziante cronaca della notte in cui Pino morì: l’arrivo di due poliziotti a casa Pinelli a dire “Signora, lo sa che suo marito è caduto dalla finestra della questura?”, la telefonata concitata in quegli uffici, la sveglia alle bambine per vestirle e farle portare a casa di amici, la corsa all’ospedale Fatebenefratelli, lo schiaffo di quel viso tumefatto che ha cambiato la vita di una famiglia intera. E che ha infranto l’illusione di un paese.

Io ho scoperto solo pochi giorni fa, grazie alle tante trasmissioni in occasione del 50°,  il cortometraggio che Elio Petri girò con Gianmaria Volonté, Renzo Montagnani e Luigi Diberti che ricostruisce le tre versioni ufficiali (tre!) su come sarebbe avvenuta la morte dell’anarchico Pinelli, precipitato dalla finestra della Questura di Milano con un “balzo felino”. Morte poi archiviata secondo la fantasiosa definizione di “malore attivo”. È piuttosto sorprendete vedere il coraggio dei “lavoratori dello spettacolo” (come loro stessi si definiscono) che vogliono mettere la faccia per mostrare l’incredibilità di indagini tanto farraginose.

RR: Tante sono le informazioni che ci vengono date in scena ma sul palcoscenico ci sono pochi elementi, significativi: l’orologio da muro, illuminato fin da prima dell’inizio dello spettacolo, con le lancette ferme alle 16:37, alcune sedie e pannelli, i pacchi dei regali di natale che si mescoleranno nel turbinio di una festa tragica.
Sullo sfondo la videoinstallazione di Fabio Bettonica che raccoglie i disegni e gli acquarelli a cura di Ugo Pierri e Giulio Peranzoni: seguono il progressivo evolvere del racconto, e allora ecco che si vedono osterie, cinema, il tram 15, le caramelle CHARMS e poi persone mutilate, decedute per l’esplosione della bomba, i volti vuoti che seguiranno i funerali da piazza Duomo. I disegni completano la narrazione e hanno il valore aggiunto di attenuare in parte la tensione che le parole e il ricordo rievocano.

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ES: Le immagini sono molto presenti, forse troppo, a mio parere. Giusta la tua osservazione sul lenire il senso di inquietudine sotteso a tutto il lavoro ma un accompagnamento meno continuo credo farebbe emergere con maggior nettezza le due qualità del testo che insieme ne costituiscono il pregio: la limpida consapevolezza data dalla distanza di cinquant’anni passati da ciò che si racconta e il calore – ancora vivissimo – dello sgomento e dell’orrore di quel 12 dicembre. Non indulge, Sarti, no, le sue parole non sono mai di lamento; sono, semmai, cariche della fatica di capire, dello stupore di fronte a come, frettolosamente, si volle costruire una verità fasulla, a tutti costi.

RR: Uno spettacolo che ha il coraggio di raccontare e far rivivere la memoria per coloro che quel giorno c’erano ma soprattutto per chi non c’era. E ci ricorda che il teatro, anche quando tratta pagine di grande portata storica, deve sempre partire dai sentimenti più profondi e dalla quotidianità.

ES: Vedi, io non riesco a disgiungere la visione di questo spettacolo – forte, attento, accorato e accurato – che racconta qualcosa accaduto prima che noi nascessimo ma che ha reso com’è l’Italia nella quale viviamo, dagli strascichi che ancora si porta dietro: perché lo abbiamo visto, in questi giorni di trasmissioni sulle indagini intorno a Piazza Fontana, Franco Freda e le sue eleganti dolcevita bianche, lo abbiamo letto, ora, inneggiare alla razza bianca e a chi la salverà; abbiamo visto le interviste al militante di Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra (ergastolo per la strage di Peteano) che non si pente di niente perché “era una guerra, e in guerra i morti ammazzati si mettono in conto”.
L’importanza di questo spettacolo non è solo nel ricordare un fatto tragico del passato italiano più oscuro ma nel dire che – da tempo – quel passato non è più così oscuro perché sappiamo chi è stato a mettere quella bomba: la responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura (matrice fascista) è provata da una sentenza anche se loro non sono mai finiti in galera.
E quel silenzio, la compostezza di una città che ha voluto difendere la democrazia, si può rompere con la volontà di artisti che, ancora, vogliono mettere la faccia dentro la nostra Storia.

IL RUMORE DEL SILENZIO
con Laura Curino e Renato Sarti
testo e regia Renato Sarti
disegni Ugo Pierri e Giulio Peranzoni
video installazione Fabio Bettonica
musiche originali Carlo Boccadoro
assistenti alla regia Salvatore Burruano, Chicco Dossi
con il sostegno del Comune di Milano
con il patrocinio di Associazione Piazza Fontana 12 dicembre 1969, ANED, ANPI Provinciale di Milano e Istituto Nazionale Ferruccio Parri,
con il contributo di CGIL, FLC CGIL, FISAC CGIL, FIRST CISL, UILCA UIL
si ringraziano Licia, Claudia, Silvia Pinelli e Piero Scaramucci autore del libro “Una storia quasi soltanto mia”
produzione Teatro della Cooperativa
spettacolo sostenuto nell’ambito di NEXT ed. 2019/2020 – progetto di Regione Lombardia in collaborazione con Fondazione Cariplo
testo finalista 55° Premio Riccione per il Teatro
Teatro della Cooperativa,12 dicembre 2019