ELENA ZETA GRIMALDI | Un mito è una narrazione finzionale che serve a tramandare, spiegare, accettare la realtà. Risulta curioso che per confrontarci con la realtà abbiamo sempre avuto bisogno del suo contrario, fin dall’alba dei tempi. E, dall’alba dei tempi, i miti che ci raccontiamo sono più o meno sempre gli stessi: può cambiare l’ambientazione, i personaggi, i risvolti, il punto di vista, ma il paradigma di fondo che regge la storia resta sempre lo stesso. Il mito per antonomasia (come ci insegnano quelli greci, in cui ancora ci ritroviamo) è universale: in quanto finzione si può trasformare a prescindere dallo spazio e dal tempo e restare sempre vero, per ognuno a suo modo.
Niente di oscuro, allora, nella decisione di Scena Nuda di aprire l’VIII edizione del Festival Miti Contemporanei ospitando nella sala ridotta del Teatro Cilea di Reggio Calabria la compagnia del Theatro Technis Karolos Koun di Atene e la sua messa in scena de Le serve di Jean Genet: un testo che mette in tavola lo scontro tra il mondo della realtà e quello dell’immaginazione, e li moltiplica all’infinito, fino al punto di dimostrarcene l’inesistenza.
In una introduzione che è già spettacolo, Marianna Calbari, regista e interprete, ci spiega in italiano (un po’ traballante, sì, ma proprio per questo portatore potente di volontà di dialogo) che alla prima traduzione greca del testo si decise di dare il titolo Le schiave, a rimarcare l’idea dell’autore di una servitù come condizione esistenziale, prima che di classe: Claire e Solange non sono solo due sorelle francesi a servizio di una ricca famiglia di inizio Novecento, ma riflesso di un’intera umanità schiava, subalterna, maltrattata e − non ultimo − psicotica. Le protagoniste, Katia Gerou e Konstantina Talkou, entrano in scena nei panni di loro stesse e si preparano allo spettacolo davanti a noi, mentre la voce della Calbari si presta alle parole di Genet: la camera da letto in cui si svolge la vicenda si dovrà adattare allo spazio/tempo della rappresentazione, in Francia sarà in un modo, in Inghilterra in un altro, cambierebbe se fosse ambientata nel Novecento o nel Seicento; e, conclude, se si dovesse rappresentare in un teatro greco non servirebbe nulla, basterebbe mettersi d’accordo col pubblico su dove si trovano il letto, la porta, la finestra.
Il tacito accordo del gioco col pubblico è stato siglato, la magia del teatro smascherata per essere realizzata; con gran frastuono, Calbari srotola sul palco degli enormi tappeti riflettenti, le serve prendono posto e lo spettacolo comincia. In scena un tavolo operatorio, un telo nero e due sgabelli, poco altro viene utilizzato per farci entrare nei mondi delle serve. L’inizio è spiazzante, l’energia esplode in un secondo e ci risucchia dentro la scatola nera della scena: Claire sta interpretando la parte della Signora mentre Solange interpreta la sorella Claire, tanto più vessata tanto più servizievole. Ogni gesto è calibrato, ogni parola mirata, e quando la finta Signora si riempie di fiori in ogni angolo siamo completamente schiavi delle due attrici.
Il gioco delle due serve si materializza dentro e oltre il palco, apre e lascia socchiuse scatole cinesi da cui la psicosi (oggi chiamiamo così il «vivere la realtà come gioco e irrealtà, e il sentire come realtà la fantasia e il gioco») straripa come i demoni dal vaso di Pandora. E quando vediamo un telo di tnt che per noi è un lenzuolo di seta diventare un costosissimo e preziosissimo abito, iniziamo a sospettare che un po’ psicotici siamo anche noi.
Le due sorelle usano la rappresentazione (che parte sempre dal reale, ma non gli resta mai fedele) come arma per “aggiustare” il mondo ma anche loro stesse: giocano a travestire l’immaginazione da realtà e viceversa, fino a che i due universi entrano in collisione quando denunciano il marito della Signora per fatti probabilmente mai accaduti.
Si ritorna bruscamente a terra: i movimenti che prima colmavano lo spazio si riducono, e più piccole sembrano farsi anche le protagoniste, tutto è discreto e “normale” ora che la Signora sta tornando a casa e potrebbe scoprire cosa hanno combinato. Inutile studiare un piano per salvarsi, anche dopo essersi ferite da sole non possono cambiare arma: tentano di dare il colpo di grazia alla realtà decidendo di uccidere la Signora, ma non riescono a tenere entrambi i piedi nello stesso mondo.
Saltano da una parte all’altra, i silenzi di ghiaccio disturbati solo da qualche sussurro vengono rotti da concitati ritmi elettronici, l’onnipotenza e la frustrazione fanno a spallate, mentre noi ci aggiriamo sul confine sbiadito tra realtà e finzione, prede dell’inspiegabile sensazione che ci sia sotto qualcosa di così ovvio da sfuggirci.
Le protagoniste giocano con tutte le sfumature che separano riottosità e sottomissione, rivalsa e senso di colpa, una danza magnetica che ci accompagna fino al triste epilogo: le maschere cadono e appare la verità, un terzo mondo schiacciato tra gli altri due, nascosto, intimo, personale. Una verità fatta di bugie che diciamo a noi stessi, di sogni che nascondiamo agli altri e di tutta la paura che abbiamo di vivere. Finalmente inondate di luce, le catene scompaiono e i demoni che le stringevano si disintegrano davanti alla nostre orecchie: bastava nominarli per distruggerli? Forse è così, ma Claire e Solange non lo sapranno mai: hanno corso senza mai fermarsi, e ora non hanno il tempo per rendersi conto che la vera schiavista non è la Signora ma quella parte di loro che non vogliono affrontare.
È troppo tardi, arrivate alla fine di tutta una vita. Per Claire e Solange è davvero troppo tardi.
LE SERVE
di Jean Genet
produzione Greek Art Theatre (Theatro Technis Karolos Koun) Atene
regia Marianna Calbari
con Katia Gerou, Konstantina Talkou, Marianna Calbari
Festival Miti Contemporanei
Teatro Francesco Cilea, Reggio Calabria
28 novembre 2019
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