LAURA BEVIONE | Capita davvero assai di rado di potere rivedere il medesimo spettacolo dopo quasi cinque anni, essendo la realtà teatrale italiana costellata da progetti e allestimenti che vivono il tempo di una candela di cera… Certo L’arlecchino servitore di due padroni con la regia oramai da manuale di storia del teatro di Strehler è in scena da sessant’anni – la prima edizione risale al 1947 – ma in quel caso si tratta di – pur legittima e sacrosanta – memoria museale.

La vostra cronista teatrale, dunque, è stata felice di assistere al teatro Astra – dopo il debutto al Gobetti di Torino avvenuto all’inizio del 2016 – a Il berretto a sonagli, il primo Pirandello messo in scena da Valter Malosti, anche interprete del protagonista maschile Ciampa. C’era la curiosità di capire come lo spettacolo – che non è stato mai abbandonato bensì portato in tournée per alcuni mesi ogni anno –  fosse “invecchiato”; e c’era la tesa incertezza che sempre ci accompagna quando rivediamo qualcosa che abbiamo apprezzato.

Il regista torinese ha utilizzato la prima stesura della commedia  – ritrovata nel 1965 e pubblicata soltanto nel 1988 – redatta in siciliano per Angelo Musco, e da quella ha tratto un copione che mescola dialetto e italiano, orchestrando una partitura dal ritmo incalzante e dal tono grottesco. Coerentemente con quel “sentimento del contrario” che, secondo Pirandello, definiva l’umorismo, Malosti opta per una comicità surreale e spiazzante, che suscita la risata lasciando in bocca un retrogusto assai amaro.

La vicenda è quella topica da barzelletta: una donna tradita – l’aristocratica e sofisticata Beatrice interpretata con energica isteria e accorata passione da Roberta Caronia – rinuncia al decoro e alla dignità per vendicarsi del marito fedifrago – costantemente citato ma mai in scena – che ha una relazione con Sarina – la statuaria Roberta Crivelli, che compare in scena agghindata come una Madonna da processione ma pure modella di una nota coppia di stilisti siciliani. Sarina è la moglie dello scrivano del marito di Beatrice, il semplice e geloso Ciampa, interpretato dallo stesso Malosti, che mostra di trovarsi a proprio agio anche in ruoli apparentemente “comici” come questo.

Ciampa, infatti, incarna una particolarissima declinazione del rasoinneur pirandelliano: i capelli bianchi arruffati, tiene sotto chiave la moglie che, nondimeno, lo tradisce spensieratamente, concedendogli però l’illusione di governarla con incisività. Forse, nel profondo di sé, Ciampa è consapevole di essere “becco” ma, per sopravvivere, sa che è bene credere nella recita messa quotidianamente in scena per lui da Sarina.

Ciampa, nel lungo, primo dialogo con Beatrice e il fratello di lei Fifi – il viscido e tartufesco Vito Di Bella – esplicita chiaramente quale sia la propria visione dell’esistenza, un teatrino in cui ciascuno è costretto a interpretare un “pupo”, ossia a indossare quella maschera che la società ritiene più consona al suo ruolo: la moglie dignitosa e obbediente; l’impiegato fedele al suo datore di lavoro, benché questi si diverta con la sua sposa.

La vita come una recita costante, durante la quale, a seconda delle circostanze e, soprattutto, delle convenienze, è bene scegliere la giusta “corda”: quella civile, quella seria e, ancora, quella pazza. E proprio la follia appare a Ciampa l’unico mezzo per affrontare l’oltraggio e l’offesa senza perdere il rispetto di se stessi e degli altri: eccolo, dunque, dopo l’avvenuto arresto “in flagrante” di Sarina e del marito di Beatrice, rientrare in scena con gli abiti in disordine e un’ascia in mano …

Nel duetto finale con Beatrice, la convince ad adottare la sua medesima maschera, unico mezzo per continuare a sopravvivere nella loro società ipocrita – ovvero abitata da hypocritès/attori. Una concezione della vita, quella di Ciampa/Pirandello, chiosata efficacemente dalla scenografia di Carmelo Giammello: pannelli di specchi che delimitano l’unico spazio scenico, occupato da un divano e da innumerevoli valigie, e che ribadiscono la necessità, avvertita però soltanto da Beatrice e Ciampa – non a caso i due personaggi “soccombenti” – a guardarsi per ciò che realmente sono e a gridare finalmente la verit”.

Lo spettacolo mescola irresistibile comicità e desolato sguardo sull’umanità: un compenetrarsi fluido di riso e violenza – esemplare la relazione tra fratello e sorella, che tradisce l’innato e aggressivo maschilismo dell’uomo –, di convenienza e ansia di giustizia – della prima sono incarnazione la desolata cameriera Fana, Maria Lombardo, e la madre di Beatrice, Paola Pace.

Una messinscena che, oggi come nel 2016, procede inarrestabile e irresistibile: un meccanismo che le costanti repliche hanno permesso di oliare e perfezionare, rafforzando pure l’intesa fra gli interpreti – citiamo anche Paolo Giangrasso nei panni del delegato Spanò. Un meccanismo che, nondimeno, non si traduce in repliche realizzate inserendo una sorta di “pilota automatico”, bensì in messinscene ognora variate e arricchite delle esperienze, lavorative e di vita, compiute dagli attori che, così, riescono a non ridurre i propri personaggi a semplici “pupi”.

I quasi cinque anni di vita non hanno fatto de Il berretto a sonagli un polveroso pezzo da museo, quanto un organismo sensibile alle variazioni intervenute ai suoi interpreti così come alla realtà esterna e capace di tradurle in forza espressiva. Ecco questo è il repertorio che vorremmo e che crediamo possa fare molto bene al teatro italiano.


IL BERRETTO A SONAGLI
di Luigi Pirandello

adattamento e regia Valter Malosti
scene Carmelo Giammello
costumi Alessio Rosati
luci Francesco Dell’Elba
interpreti Roberta Caronia, Valter Malosti, Paola Pace, Vito Di Bella, Paolo Giangrasso, Maria Lombardo, Roberta Crivelli
produzione TPE -Teatro Piemonte Europa

Teatro Astra, Torino
18 dicembre 2019

 

 

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