GIORGIO FRANCHI | Da qualche giorno, come è consuetudine a ogni inizio gennaio, possiamo osservare il proliferare nei feed dei social di articoli di diverse testate, che propongono un riassunto dell’anno appena passato in cinque, dieci, venti momenti memorabili. Comune denominatore di ciascuno di questi elenchi, che citano o tralasciano, a seconda dei casi, l’impeachment di Donald Trump, l’incendio della cattedrale di Notre-Dame e la prima fotografia di un buco nero, è la nascita del fenomeno Greta Thunberg.
Dal discorso all’ONU durante il vertice sul clima in poi, la giovane attivista svedese si è ritrovata al centro di una tempesta mediatica che già da tempo ne monitorava con interesse ogni spostamento. Dall’elezione a Person of the Year per la rivista Time alle centinaia di meme ad altissima viralità (tutti ne abbiamo ricevuto almeno uno da qualche gruppo Whatsapp nel periodo delle feste), Greta è diventata l’icona di questo 2019, con ottime speranze di replicare il risultato per l’inizio della decade. Non sono mancate le critiche, tra cui quella di chi la accusa di mostrare solo il problema, senza proporre una soluzione. In questo, tuttavia, lei è sempre stata chiara: il punto della sua protesta e dei Fridays for Future, gli scioperi globali per il clima che ha lanciato, è quello di riportare consapevolezza sulla problematica ambientale e convincere i politici ad ascoltare gli scienziati.
2 gennaio 2020. Nel popolare talent show culinario Masterchef Italia, lo chef Bruno Barbieri, sguardo fisso in camera ammantato di profonda convinzione, dichiara solennemente che il programma, per supportare la lotta al cambiamento climatico, ha definitivamente bandito l’uso della plastica in cucina; provvedimento da commedia di Esteve Soler, se pensiamo che metà delle prove per i concorrenti consiste nel cucinare con ingredienti esotici, con una fortissima impronta di CO2 dovuta al trasporto attraverso mezzo pianeta. In Piazza del Duomo, a Milano, per la prima volta l’albero di Natale è stato sostituito da una struttura artificiale, più ecologica: un gesto più simbolico che effettivo, considerato che il capoluogo lombardo, nello scorso autunno, non è quasi mai stato sotto la soglia verde di 50 punti nell’Air Quality Index, triplicando il punteggio nella prima settimana di gennaio.
Il dizionario del 2019 si è trovato sicuramente arricchito di termini rispolverati e riportati in auge. Una menzione speciale va sicuramente a green, riproposto tante volte da uscirci dagli occhi. A seguire, il meno fastidioso sostenibile, il frizzantino eco-friendly e l’immancabile plastic free che, tra l’altro, sottintende un male intrinseco nell’uso della plastica, quando l’unica cosa da demonizzare sarebbe il culto dell’usa e getta a essa collegato; culto che, finora, non ha trovato veri e propri avversari, dato che pure le alternative in legno di bambù e peli di ornitorinco spesso non brillano per durevolezza. Anche su Thunberg, suo malgrado, sono spuntati proverbi e modi di dire come funghi dopo la pioggia. L’uomo nero che puniva i bambini quando non finivano il loro piatto è stato sostituito da una temibile ragazzina svedese, pronta a crocifiggerli per il terribile spreco. E come dimenticare il neologismo gretini, coniato da Libero qualche mese fa, ingrediente che abbonda nei discorsi di certi reazionari quanto le spezie nella cucina indiana?
Ciò che il 2019 lascia in eredità ai posteri, tuttavia, non comprende la consapevolezza del problema. Siamo pieni di termini per definirlo ma non abbiamo i messi per farlo, come la storia degli eschimesi che hanno quaranta parole per chiamare la neve che tra un po’, proprio a causa del riscaldamento globale, non serviranno più a nulla. Nessuno sembra soddisfare pienamente le tre condizioni necessarie e sufficienti a cambiare le sorti del pianeta: comprendere il problema, avere la voglia di risolverlo e la possibilità di farlo. Brancoliamo nel buio, e nell’impossibilità di vedere la luna osserviamo il dito che la indica e il corpo a cui è attaccato. Così il dibattito pubblico si impernia su una ragazzina che, dal primo giorno di protesta, non fa che ripetere di non ascoltare lei, ma i climatologi di tutto il mondo. Chi ha i mezzi sfrutta la situazione per cavalcare l’onda ambientalista e trovare nuovi consumatori preoccupati per le sorti del pianeta, in cerca di uno spazzolino meno inquinante da acquistare per dare il loro piccolo contributo alla causa.
Tutta la catastrofe svanisce così nella nebbia, come se non fosse successo nulla, nascosta da quello che doveva essere il suo simbolo. L’agghiacciante prova sono gli elenchi di cos’è accaduto nel 2019, che riportano sempre Greta Thunberg, ma raramente gli incendi in Russia, Amazzonia, Congo e Indonesia.