FRANCESCA SATURNINO | Napoli, dicembre 2019. Al Teatro San Ferdinando è appena finita la ripresa di Festa al celeste e nubile santuario, testo storico che, dopo aver messo in scena lui stesso con Tata Barbalato e Gino Curcione nel 1984, Enzo Moscato affidò a Isa Danieli, Angela Pagano e Fulvia Carotenuto e la regia di Armando Pugliese. Oggi, a trentacinque anni dalla prima, nei panni delle atroci sorelle protagoniste di questo bozzetto tra Eduardo e Cechov calato nel cuore di Toledo, ci sono Cristina Donadio, Lalla Esposito, Anita Mosca con Giuseppe Affinito nei panni di Toritore. Dopo due settimane di applausi a scena aperta, incontriamo l’auto attore a Sala Assoli, ritrovo più che familiare.
Enzo Moscato è seduto sulla terza fila della platea, che affaccia sul misterioso antro magico della sala che in tanti anni di attività ha ospitato spettacoli, incontri, apparizioni. Quella che segue è una parte della nostra chiacchierata che inizia dal suo ultimo lavoro in scena ma s-confina, come sempre, in argomenti e temi a noi cari: schegge di un unico universo ritornante che è Napoli.
Come nasce Festa al celeste e nubile santuario?
L’ho scritto nell’83, fu messo in scena nel marzo dell’84. Gli anni ‘80-‘85 sono stati quelli in cui ho scritto e portato a teatro molte storie su Napoli. Il primo è Carcioffolà con cui debuttai nell’80 a Roma con Piero Carosiello.
Passarono due anni, in cui elaborai Scannasurice. Debuttati nell’82 a Spazio Libero e poi nell’autunno dello stesso anno al San Carluccio. Scannasurice, come forma di testo, occupa un posto a sé. Al seguito Signurì signurì, Trianon, Festa al celeste e nubile santuario, Ragazze sole con qualche esperienza sono delle storie, se le leggi bene, abbastanza canoniche per come sono scritte. Nel 1986 arrivo a rompere tutto con Occhi gettati che è un monologo fatto di tanti brani lunghissimi e diversi tra di loro con una forma assolutamente nuova rispetto al precedente. Le prostitute carcerate di Trianon, la Napoli bellica di Signurì signurì, queste tre sorelle cecoviane che fanno le «merciaie», i travestiti assassini di Ragazze sole sono tutte storie che vengono fuori dal mio immaginario, da un lato estremamente personale e libero perché ero un ragazzino che leggeva molto di altri paesi, di altre storie; dall’altro lato esprimono anche un genoma: essere nato nei Quartieri Spagnoli, aver vissuto o sentito dire queste storie. Naturalmente nell’immaginario di un bambino, di un adolescente e poi anche di uno scrittore adulto le storie vengono cambiate, costrette dalla personalità tua, di quel momento. Adesso non so se la storia di queste tre sorelle era proprio così. Sicuramente ricordo di questo antro a Montecalvario dove abitavano tre zitelle, uomini non ne ho mai visti. Era un luogo terribile, pieno di panni appesi, mucchi di cose, era proprio una tana, a noi bambini spaventava e attraeva, con queste sorelle brusche molto cattive e sbrigative con noi. Tutto questo appartiene a un mio mondo originario, archetipico che sono i Quartieri Spagnoli.
Siamo nella Napoli post terremoto?
Quella che narro io è la Napoli degli anni ’50, della mia infanzia. Agli inizi dei ’60 ho avuto l’emigrazione a Fuorigrotta. Una Napoli laurina, piena di feste. Ricordo le feste di quartiere, dei santi: luminarie, Piedigrotta favolose cui ho partecipato anch’io da ragazzino. All’epoca a Piedigrotta era la festa della carta. Mia mamma era sarta e ci faceva dei costumi magnifici, dai Tre moschettieri alla Regina Carolina, aveva una grande inventiva. Dentro al Maschio Angioino si facevano dei concorsi di bambini vestiti con costumi di carta. Una volta io e mia sorella che vive in America da più di cinquant’anni vincemmo il primo premio vestiti da Nerone e Poppea. Tutti i quartieri erano imbandierati, Piedigrotta era una festa molto sentita, viva. L’amministrazione laurina che era di destra, faceva perno su questa tradizione, che poi era convenzione, per certi versi. Era una Napoli che io ricordo, come si suol dire, di festa e di forca.
Nello stesso anno di Festa al celeste e nubile santuario, sarebbe morto Eduardo.
Questi due atti, almeno nella forma, sono profondamente eduardiani, anche se poi ribaltano questo modello, completamente.
Sono malignamente eduardiani! Io ho sempre fatto questo con gli spettatori. Gli ho dato sempre un primo tempo più o meno tradizionale, almeno dei drammi e nelle commedie: espositivo, dichiarativo delle intenzioni, molto, come dire, programmatico e un secondo tempo traditore che sconvolge il primo. Questo rispecchia la mia natura. Sono venuto fuori da una città che ha avuto un grande teatro di tradizione; dall’altro lato è una città che ha messo fuori, soprattutto negli anni ’80, una generazione di scrittori di teatro assolutamente traditori di quella tradizione: me, Ruccello, Santanelli, Autiero. Anche la religione è un falso pubblico e quindi anche il teatro lo è. Nel testo in questione, ti faccio vedere che queste sorelle sono pie e devote e poi diventano delle assassine reo confesse. Napoli è madre e matrigna, per tutti.
Per tutti quelli che vi sono nati, che l’hanno espressa, per tutti i grandi scrittori che l’hanno scritta. Ortese, Compagnone, Ramondino che è stata l’ultima esponente di una grande tradizione. Napoli è anfotera, il mio teatro rispecchia questa forma ambivalente: è animale e femmina, sirena e pesce. Scrivere è essere scritti da Napoli, trovo che sia questa la questione fondamentale. Come sia venuto fuori questo mio desiderio di fare questo lavoro, di legarmi a questo modo di parlare di Napoli fino a un certo punto è un fatto mio: trovo che sia piuttosto una questione di “destinalità”, così come viverci, consumarla giorno dopo giorno.
Com’è stato riprendere lo spettacolo una terza volta?
La prima edizione era con gli uomini. C’erano Curcione e Tata, all’epoca allievi dell’Accademia di Belle Arti, uno a Scenografia e l’altro Pittura, e un ragazzo dell’Accademia a fare Toritore che all’epoca aveva un ruolo minore. Nella seconda edizione c’erano grandi attrici eduardiane. Oggi, dopo più di trent’anni, non per desiderio mio, ma piuttosto della mia compagnia, di riportare a conoscenza degli spettatori questo testo dell’84, l’ho rifatto. All’inizio ho avuto delle resistenze ma i miei compagni mi hanno detto una cosa che poi si è rivelata vera: il pubblico che ha visto questo spettacolo rarissimamente ospitava qualcuno che lo avesse visto nelle edizioni precedenti. Molti non avevano idea né che l’avessi scritto, né che l’avessi fatto, né che io, che negli ultimi anni metto in scena testi molto particolari, avessi quel tipo di scrittura che è precedente di ben quattro anni al Premio Riccione.
Come fu la primissima rappresentazione? Immagino che all’epoca fosse ancora più destabilizzante vedere tre uomini nella parte delle donne.
Beh, meno destabilizzante di ora, e sai perché? All’epoca c’erano dei grandi attori che facevano il teatro en travestie, uno per tutti Leopoldo Mastelloni, poi Paolo Poli. Ora lo fanno, ma sicuramente in una forma molto reificata. Quella era una formula interpretativa di teatro che aveva una grande tradizione, pensa a Lindsey Kemp. E poi noi lo facevamo anche per esigenze economiche: non potevo permettermi di pagare delle attrici, per cui lo facemmo noi.
Forse era leggermente più comico, più grottesco, più surreale delle edizioni successive perché le donne, per comiche che possano essere, tirano fuori sempre un lato oscuramente tragico della loro condizione e non facilmente attirano la risata. Quando lo facevamo noi, la scena del cucito per esempio, la gente moriva dalle risate anche solo a vederci e poi a sentire quelle parole. Penso a quando c’è quella mantica, quell’evocazione delle morte, Fraulella e le altre.
A proposito di quella mantica, ci sono persone o eventi veri?
Quelle sono tutte le morti che da ragazzino ho sentito dire. Tra le donne del ceto popolare del quartiere, l’argomento preferito davanti ai bambini erano le altre donne morte, parlare di dov’erano morte, come, perché. Era un’ecatombe, ho trovato l’equivalente di questo un po’ in Spoon River, dove ci sono degli epitaffi: chi è morto per aborto, chi di parto… questi racconti venivano fatti sotto gli occhi e le orecchie dei bambini in una maniera estremamente cruenta, non come accade in una famiglia borghese. Vieni a sapere i misteri della vita, del sesso maschile e femminile in una maniera precoce. Tutto questo genera un “carcinoma”, come dicono le protagoniste dello spettacolo, di tipo creativo, nel migliore dei casi.
Eppure a me quella di Festa al celeste sembra una versione sempre più salvifica dei Quartieri Spagnoli di oggi.
Beh, c’era la dannazione e c’era la maniera di uscire dalla dannazione: io ne sono un esempio. Essendo potuto andare a scuola e avendo cambiato quartiere, rispetto ad altri bambini che avevano le mie potenzialità, io mi sono salvato. C’erano dei meccanismi di salvazione, il più grande era la scuola. Avevo un maestro, Ambrosino, che era tosto con noi ragazzini dei vicoli che ovviamente parlavamo solo dialetto. Un po’ bacchettava e un po’ accarezzava ma ci ha insegnato la lingua nazionale, che poi perdevi subito appena tornavi a casa o stando per strada. Un po’ il caso, un po’ hanno visto in me una propensione, sono riuscito a fare le scuole. Un altro elemento salvifico è stato questo: il maestro Ambrosino mi voleva bene. Io scrivevo molto bene, nonostante parlassi Napoletano. C’erano delle gare di scrittura, vinceva chi faceva il tema più bello. Una volta vinsi il primo premio e il maestro mi regalò Il richiamo della foresta di Jack London. Nel libro di Jack London iniziai a intravedere che c’era un altro mondo. L’Alaska, i cani. Il maestro disse a mia madre: «Se potete fare un sacrificio, io lo metterei in una scuola privata». Mentre la mia famiglia aveva qualche ambizione a elevarsi, gli altri sprofondavano sempre di più. Così mi misero dalla monache francesi.
Cosa cambiò?
Lì ho conosciuto un altro mondo: c’era una retta, avevamo un grembiule azzurro con il colletto bianco, facevano delle cose strane ‘ste monache, delle gare. Da loro c’è stata la mia prima rappresentazione teatrale. Fu in quarta elementare con la mia maestra Lucia Landi: la adoravo. Un giorno ci fece fare una recita in classe: Cristoforo Colombo che scoprì l’America; a me fece fare Cristoforo Colombo, gli altri bambini facevano i mozzi e altro. Andò talmente bene che le monache che avevano un teatrino decisero di rifarlo lì. Ricordo la mia prima rappresentazione teatrale. Queste luci che si accendevano su di noi – ora col pensiero vado indietro – e questo mondo, anche se non consapevolmente, allora, mi affascinò tantissimo. Poi l’ho ritrovato anni e anni dopo. Fu un successo straordinario. [Ride]. L’arrivo in quella scuola per me è stato determinante perché era un ambiente diverso, più borghese. Contemporaneamente i miei cambiarono casa. Insomma, erano anni in cui la gente era animata da una santa ambizione di elevarsi. Oggi accade esattamente il contrario: la gente nun se vò elevà, vo sprufundà, perché nello sprofondo c’è come un valore.
Parlando della Lingua, in Festa c’è una lingua molto più soave, diversa dagli altri testi.
È la lingua che io ho sentito da ragazzino: con tutti modi di dire, i proverbi, le iperboli e il resto. In Festa c’è una lingua diversa da Trianon come, c’è una lingua diversa da Ragazza sole dove c’è lo slang dei travestiti napoletani dei miei quarant’anni. I travestiti sono venuti alla fine degli anni ’50. Quel tipo di conoscenza che ho messo in Ragazze sole mi è venuta dopo tante esperienze sociologiche e antropologiche con quella umanità. Ancora diversa è la lingua di Signurì, signurì, o quella di Occhi gettati. Ho cercato di riprodurre linguisticamente in Festa quello che sentivo dire da queste donne che mi circondavano a proposito della religione, delle altre consimili, del quartiere. È un po’ come in Proust, vengono fuori dei nomi che poi sono comparsi in altri testi: “Caterina a vammana”, Rachele di Vico Politi su cui io torno in Istruzioni per Minuta Servitù. Si tratta di gente del vicolo che ho conosciuto personalmente o di cui ho sentito dire: mitologie terribili e sublimi.
In un certo senso, il testo parla soprattutto di queste mitologie
Il protagonista assoluto di questo testo è il culto della Madonna Immacolata il 7 dicembre che esisteva nel mio quartiere. Usciva una piccola Madonna della Chiesa della Concezione, quella da cui nel testo mettono la croce nera e che ora è chiusa e non si sa se mai riaprirà. Pensa, che cosa allucinante. Questa Madonnina bellissima usciva per tutti i vicoli il 7 dicembre ed era vestita da mia zia Melilla, grande sarta, maestra di mia mamma, con tutte queste femmine del quartiere che si prendevano a cuore la Madonna. Queste tradizioni erano ancora presenti.
Che cosa si celebra in Festa nel 2019? La scomparsa di tutto questo. C’è un’epistemologia, un modo di sapere, del sociale, della storia, che nun ce sta chiù. Non c’è più. Ci riflettevo stamattina: quello che diceva Pasolini, che Napoli è l’unica città del Mediterraneo che si salverà che resisterà… non è vero.
Perché?
C’è l’omologazione più totale. Io sono uno che viene da un mondo diverso, ho scritto e ho anche sempre riflettuto su ciò che ho scritto. Oggi, rivedendo Festa alla luce di quello che accade, penso: nell’84 erano quattro anni dopo il terremoto, eravamo alla ricerca di spazi dove fare il Teatro, con la città crollata. C’era una speranza, di ricostruire. Non si è più ricostruito più niente: le case, forse, ma non si è più ricostruito il modus vivendi che c’era.
Qualcuno potrebbe dirmi ma questa è nostalgia. E perché no? C’è nostalgia di una integrità.
[si ferma, fa una lunga pausa]
È tutto frantumato, maciullato. In questi giorni di festa ho visto Toledo come non l’ho mai vista. Zozza, fetente. Con queste chiese tutte transennate, chiuse, che nessuno si prende la briga di rimettere in piedi. Peggio del terremoto, manco col terremoto era così. Non c’è un posto in cui Napoli non stia cadendo. Ciò che il grande vate del Novecento aveva detto su Napoli è stata una sua illusione. Certo, ci sono dei gruppi di resistenza, noi lo facciamo giorno per giorno. Io non vorrei peccare di nostalgia, del resto la nostalgia è il dolore del ritorno, il dolore di un rimosso, sostanzialmente. Questo vuol dire nostalgia. Non so perché bacchettano la nostalgia. A me il presente non piace, spero che un futuro sia meglio di questo. Se il presente non mi piace e il futuro è una speranza, è chiaro che ti rivolgi solo al passato. Questo presente è bestiale. Al di là del fatto recitativo, prossemico, teatrale, Festa al celeste e nubile santuario è soprattutto un pezzo della cosiddetta archeologia del sapere di una città che è scomparsa.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Continuo questo a scrivere. Ora sono polarizzato su una sorta di anamnesi attraverso la scrittura della mia vita cui mi dedico quando ho tempo, una sorta di forma diaristica. E poi Museo del popolo estinto che ho presentato per la prossima edizione del Napoli Teatro Festival. Vorrei fare cose che ho scritto almeno negli ultimi dieci anni, continuare un po’ sull’asse del La Ronda degli Ammoniti che metto in scena io.
Ultima, consueta, domanda: che stai leggendo – o rileggendo-in questo periodo?
Di solito sento sempre bisogno di rileggere perché mi sembra sempre che non ho capito. I miei toccasana sono i grandi scrittori classici, in primis Dickens che ha questa capacità di tirarti dentro: storie tragiche, lugubri e questa magia dell’infanzia, di chi ha vissuto quelle cose. Per me è un incanto. Se ho mal di testa, sembra che dopo dieci minuti di Dickens mi sia passato. Altro vademecum per me sono Ortese, Morante, Calvino un elisir. Fenoglio magnifico, forse il più grande italiano: questi scrittori di guerra che sono così attuali, questa Resistenza che non c’è mai stata, so tutt’ muort’ muort’ muort’ , ma a pro di che? Tocco tre, quattro libri per volta. Mi ricordo di una lettura particolare: passai miracolosamente la seconda media e – all’epoca i bambini erano terrorizzati dalla bocciatura – mi diedero tremila lire, io andai a Foria e comprai Il buio oltre la siepe solo perché mi piaceva la copertina. Questa storia mi ha dato alla testa. Un libro nella testa di un bambino può essere la rivoluzione. Poi mi piacciono molto le storie della Resistenza Italiana scritti dalle donne, quando ne trovo una che ha scritto e magari è stata messa un po’ da parte è una vera scoperta per me, anche perché questa dimensione è vicinissima a noi: anche se sono passati settant’anni, ho l’impressione che lì ci sia il discrimine di qualcosa di cui sentiamo la necessità in questo momento in Italia.
Le prossime date di Festa al celeste e nubile santuario sono
10/11 gennaio Salerno Tetro Ghirelli
25/26 gennaio Kismet Bari
12-16 febbraio Sala Assoli Napoli
[…] via Enzo Moscato. Dialogo su una città scomparsa — PAC magazine di arte e culture […]