ILENA AMBROSIO | Uno spazio in penombra cosparso di pietre illuminate da suggestive luci raso terra, con al centro un palo della luce si staglia su un fondale azzurro intenso. Icastica suggestione di un luogo che pare assoluto più che concreto, in cui si modellano animi; un limbo sospeso tra un aldilà e un al-di-qua dove si incontrano chi ha messo in standby la propria vita per dolore e chi si accinge, invece, a volerla imparare.
È  la prima immagine di Ali di Teatro La Ribalta che mi accoglie alla VI edizione del Kids Festival del teatro e delle arti per le nuove generazioni di Lecce.
«Io sono qui per imparare». «Qui non c’è più nulla da imparare!… Qui è un deserto… è tutto morto». Un angelo caduto (dal palo della luce); sulla schiena le cicatrici delle sue ali. Un giovane uomo che raccoglie sassi; le cicatrici, lui, le porta sul cuore. L’uno vuole imparare la vita, l’altro, capo nascosto sotto il cappuccio della sua felpa, dimenticarla, seppellirla sotto quelle pietre. L’uno chiede, interroga, pungola; l’altro si chiude, rifiuta, scaccia: «Perché tocchi dove fa male?». «Voglio vita, vita vera».
La loro storia durerà un giorno, «un giorno gratis per imparare», e sarà rincorrersi, rifiutarsi; lotta, danza (bellissima e melanconica su Vedrai di Tenco); sarà obbligarsi a ricordare un amore perduto e un albero di ciliegie; scoprire i profumi, le lacrime, imparare a camminare. Sarà scambiarsi i ruoli, sostituire il peso dei sassi con la leggerezza di piume sbucate da una valigia. «Mi piacerebbe essere come te: una sola valigia, leggera… Voglio imparare», dice il giovane. L’angelo da allievo si fa maestro; la vita che insegna non è la pesante fatica di raccogliere sassi e seppellire ma l’equilibrio leggero eppure precario, di far volare una piuma, soffiando. Il suo ultimo dono sono cicatrici di sangue tra le scapole, un ricordo di ali con cui poter «ricominciare»; la leggerezza, dolorosa sì, ma bellissima della vita.


Un testo essenziale – di Antonio Viganò, Gian Luigi Gherzi e Remo Rostagno – che si innesta in una intensa partitura fisica. Nella sensibile regia di Viganò – che pecca solo di una lieve dilatazione ritmica nell’inizio – a raccontare sono i gesti, l’interazione fisica (coreografata da Julie Anne Stanzak), le sequenze reiterate che “stanno per” un ricordo, un evento, un’idea: raccogliere le ciliegie e porgerle all’amata, il dolore dell’addio, uno più uno che fanno due ridiventando uno. Ancora, i corpi, i visi degli interpreti, ci dicono la disarmante, eterea ingenuità di cui sa vestirsi Michael Untertrifaller e la durezza materica, duro involucro di sofferta fragilità, incarnata da Jason De Majo.
Nel loro incontro un omaggio, mai patetico o semplicistico, alla vita; una lezione limpida, lieve ma diretta sul bisogno, necessario per poterla vivere, di una consapevole e matura leggerezza.

Leggerezza, capacità di librarsi sulle cose, gaie o doloroso dell’essere, ma anche leggerezza del gioco, quello magistrale e impeccabile della Compagnia Baccalà (Svizzera) che ha portato a Kids il suo pluripremiato e plurireplicato Pss… Pss.. – 12 premi internazionali e più di 600 repliche in  oltre 50 Paesi.
Due clown – Camilla Pessi e Simone Fassari – e poco più di nulla (una mela, un paio di strumenti musicali, una scala e un trapezio) per un’ora di pura gioia. E, del resto, a cosa servono strumenti quando si ha a disposizione quello più complesso e più ricco di potenzialità che esista? Il corpo: serve “solo” questo. Da acrobazie strabilianti a micro gesti e microespressioni che rasentano l’impercettibile – ma di quanti movimenti è capace un volto?! – i due clown snocciolano uno dopo l’altro i loro numeri, con un mix di precisione chirurgica e contagioso entusiasmo. Altro che i pagliacci cui ancora immediatamente si pensa quando si parla di clownerie! Capacità attoriali, equilibrismo e acrobatismo, danza, tutto questo è condensato in una performance che ha il suo maggior pregio nella perfetta e a tratti tenerissima sintonia tra i due interpreti – “Mi è piaciuto quando si abbracciavano” mi ha confidato Caterina, circa 4 anni.
Ritmi – è più che mai il caso di dire – svizzeri e una tecnica ineccepibile, evidente frutto dell’intensa applicazione a un’arte tanto antica quanto capace di rinnovarsi nelle sue forme contemporanee.


Eppure mai, neanche per un solo istante i due clown dismettono il loro… essere clown. Per tutto il tempo restano due pasticcioni trovatisi per caso su un palcoscenico, quasi intimoriti dal pubblico e che, chiamandosi con un «pss..pss…», si incoraggiano a vicenda. Anche la contorsione aerea più rocambolesca sembra buttata lì per caso, come fosse riuscita per una botta di… fortuna. Fiatone o segnali di fatica: non pervenuti. Esibizionismo: quel tanto implicito in ogni performance, ma mai egotico. Quest’ora esilarante la si sente davvero come un dono: gioia incartata con lieve eleganza, sorrisi offerti per mestiere. Ma che bella la clownerie!

Sorrisi, gridolini fanciulleschi ed entusiasmo riempiono anche la piccola sala di Manifatture Knos che ospita il duo del Mezzanin Theatre (Austria) composto da Jean-Paul Ledun ed Erwin Slepcevic, che ci intrattengono con la goffa preparazione di una Tarte au Chocolat. In un piccolo e domestico spazio i buffi personaggi si destreggiano con tenerissima complicità tra gag dal sapore antico, evocando il cinema americano anni ’20, quello delle “torte in faccia” e dello slapstick. Scena e costumi – pantaloni con bretelle, camicia, coppola –, in calde nuance del beige e del marrone, completano l’atmosfera vintage con un impatto visivo da foto “effetto seppia”.
Nonostante la precisione del personaggio di Ledun, i sabotaggi di Erwin – in un ruolo non definito che potrebbe essere quello del figlio, di un amico birbantello, di un discepolo – rendono la preparazione di una golosa torta al cioccolato una catena di divertenti piccoli disastri: zucchero e farina che strabordano, uova che volano, popcorn aggiunti al disgustoso impasto, timer di forni immaginari spostati in avanti. Il risultato è quello che ci si aspetta; eppure il finale riserva a Ludun il dolce dono di una vera torta vera che appare per magia.

Oggetti quotidiani si fanno strumenti di una comicità “prêt-à-porter”, semplice ma efficacissima. Ciliegina… sulla torta: la scelta di Ledun di recitare in italiano (per la prima volta) con prevedibili ma esilaranti errori di pronuncia.
E allora qui la leggerezza la si accoglie come un invito, un invito a sorridere semplicemente, a sorvolare sul ritmo non sempre preciso dell’azione, sulle piccole défaillance; a godere di un momento di divertissement della cui riuscita sono state testimoni le reazioni del giovanissimo pubblico, ogni momento reattivo, coinvolto nel dare dritte al povero Ledun sui dispetti di Erwin. E del resto, se sorridono loro, i bambini, che di sana leggerezza sono maestri, non si può che prendere esempio.

È levità elegante e poetica, divertente e commovente insieme, a fare da tinta del Diario di un brutto anatroccolo, produzione di Factory Compagnia transadriatica – padroni di casa insieme a Principio Attivo Teatro. La favola di Andersen nella rilettura di Tonio De Nitto resta un itinerario di formazione articolato in quadri con ambientazioni proiettate sul morbido telo/fondale (scene di Roberta Dori Puddu), variopinti dal delicato disegno luci di Davide Arsenio e sonorizzati dalle musiche di Paolo Coletta: pagine di diario i cui capitoli leggiamo proiettati in bel corsivo sul fondo.
Il racconto è affidato al gesto, al verso onomatopeico e alle azioni dei quattro interpreti che in perfetta sintonia – nonostante l’assenza di Ilaria Carlucci sostituita con coraggio e bravura da Michela Marrazzi – compensano con icasticità l’assenza di parola, aiutati dai simpatici e ingegnosi costumi di Lapi Lou.
Fin dalla prima scena – lo schiudersi di tre uova: corpi che si espandono con difficoltà da una posizione rannicchiata – si delinea la differenza tra il “gruppo” e quel quarto anatroccolo lento a nascere: piccolo e gracilino, bravo a nuotare, sì, ma incapace di starnazzare e poi con quei piedini racchiusi in scarpe da ballerina così diverse dalle grandi e goffe pinne degli altri. Una stranezza, la sua, che gli costerà bullismo a scuola e mobbing al lavoro. Troverà l’amore: romantico e tenerissimo il capitolo “Luca” con Luca Pastore. Andrà per il mondo proprio come nella favola: gli spari dei cacciatori qui saranno i rumori della guerra, i boschi e i laghi ghiacciati le strade di una città indifferenti come i suoi passanti.

La delicatezza della favola acquista spessore, tridimensionalità nella concretezza della vita, restituendo il racconto di tutte le diversità, di chiunque sia per qualche motivo «non del tutto normale».
Eppure nella resa scenica ideata da De Nitto quella “anormalità” è qualcosa di diverso dalla bruttezza e dalla goffaggine dell’animaletto anderseniano. La leggiadria del movimento di Francesca De Pasquale, gli intermezzi di danza sulle note di Tchaikoskij tra un capitolo e l’altro ci dicono subito il suo essere cigno. L’acquisizione della consapevolezza che deve passare per lo scherno, per il disagio, per l’abbandono è allora iter necessario che il “diverso” deve percorrere, viaggio nel mondo, ma anche in sé, per poter sentire, capire e accettare ciò che davvero è.
Nel finale lo specchio d’acqua della favola è un fondale argenteo in cui l’anatroccolo potrà riconoscere la sua vera natura e sui cui potrà imprimersi, come titolo di coda, proprio quella consapevolezza: “Sono io”.
La leggerezza è allora viatico di un senso necessario, coraggioso e, propriamente, formativo della coscienza dei futuri adulti seduti in sala.

Uno spessore che stentiamo a cogliere in Il grande gioco dell’ATGTP. La storia di due fratelli (Silvano Fiordelmondo e Fabio Spadoni), della notizia di una malattia e di una lista di desideri da esaudire a tutti i costi in un viaggio di condivisione e affetto; un grande gioco e insieme una lotta contro il tempo. Plot ricco di potenzialità che, purtroppo, non si realizzano in una drammaturgia che fatica a trovare reale organicità e sostanziale sviluppo, e in una resa scenica a tratti slabbrata e un po’ carente in originalità.

Ed è forse il momento di “svelare” che, fatta eccezione per Pss… Pss…, tutti i lavori descritti facevano parte del focus di questa VI edizione del festival dedicato a Teatro e disabilità, alla luce del quale si è voluto riflettere sulle pratiche teatrali più efficaci per affrontare il disagio di giovani in formazione, alle prese con caratteristiche fisiche o mentali “non conformi” (ma poi chi di noi lo è, mi chiedo!). Riflessione che ha preso la forma di una tavola rotonda con artisti e operatori ma che, nella sostanza, si è dipanata e ha offerto spunti soprattutto in scena, nel contatto vivo con il farsi di quelle pratiche.

Perché dirlo solo ora? Per una ragione ben precisa e che sostengo con forza e, cioè, che sono, prima di ogni altra cosa, le etichette e le categorie a dover essere contrastate. Ciò che in Ali, Tarte au Chocolat e Il diario di un brutto anatroccolo, ma anche nella bella narrazione L’anello magico condotta da Francesco Stefanizzi per In viaggio con le storie al Museo Ferroviario, abbiamo visto – e ci è invece mancato in Il grande gioco – sono stati attori professionisti, drammaturgie sensibili e coerenti, storie con qualcosa da dire, costruzioni sceniche efficaci; lavori che comprendevano nel cast attori affetti da disabilità.
Un dato prezioso, certo, ma da considerare in aggiunta, non come categorizzante e non per sentimentalismo bensì per la maggiore ricchezza che acquista un traguardo quando viene raggiunto, e con successo, da chi nella corsa può contare su mezzi limitati o, semplicemente, diversi. Nulla a che vedere con quel patetico bisogno che abbiamo di “sentirci buoni”, commuovendoci di fronte a storie di malattia e disabilità gettate alla mercé del pubblico in buona parte dei programmi televisivi odierni, sui giornali o in sedicenti “spettacoli teatrali” come quello presentato in tutta Italia da Paolo Ruffini (passato poi a condurre “La pupa e il secchione”… quando si dice essere poliedrici!).
Cosa fa la differenza? Quali sono le discriminanti? Penso la professionalità, l’applicazione; la volontà di mettere  l’arte al primo posto, di cercare la bellezza e di imparare a dirla; la ricerca, per dirla con la dichiarazione poetica di Antonio Viganò della «parola e del gesto vivo, sincero e necessario […] del riscatto dai luoghi comuni, della possibilità di reinventarsi […] di nuove identità, della possibilità di togliersi una pelle per indossarne un’altra».
Insomma la ricerca – intesa come studio soprattutto – del Teatro. E questo perché guardando in scena si possa essere rapiti o restare delusi da un attore, non da un disabile. Tutt’al più dalla capacità di rendere lieve, leggero e poetico il proprio essere, non sempre semplice.

ALI
Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt – Lebenshilfe Südtirol
testo di Gianluigi Gherzi, Remo Rostagno, Antonio Viganò
regia di Antonio Viganò
coreografie di Julie Anne Stanzak (Tanztheater Wuppertal)
direzione di produzione Paola Guerra
con Michael Untertrifaller e Jason De Majo
ispirato allo spettacolo ALI del 1993 una coproduzione Le Grand Bleu e Teatro la Ribalta (premioETIstregagatto 1995)

PSS… PSS..
Compagnia Baccalà (Svizzera)
di e con Camilla Pessi e Simone Fassari
regia Louis Spagna
collaborazione artistica e coordinamento tecnico Valerio Fassari
disegno Luci Christoph Siegenthaler

TARTE AU CHOCOLAT
Mezzanin Theatre (Austria)
con Erwin Slepcevic, Jean-Paul Ledun
regia Martina Kolbinger-Reiner

DIARIO DI UN BRUTTO ANATROCCOLO
Factory compagnia transadriatica – Fondazione Sipario Toscana – Tir danza
di Tonio De Nitto
con Michela Marrazzi, Fabio Tinella, Luca Pastore, Francesca De Pasquale
regia di Tonio De Nitto
collaborazione al movimento coreografico Annamaria De Filippi
scene di Roberta Dori Puddu
costumi di Lapi Lou
musiche originali di Paolo Coletta
luci di Davide Arsenio

IL GRANDE GIOCO
ATGTP (Jesi)
di Silvano Fiordelmondo, Simone Guerro, Francesco Niccolini
con Silvano Fiordelmondo, Fabio Spadoni
regia e scrittura scenica Simone Guerro
editor teatrale Francesco Niccolini
light desiner Michelangelo Campanale
costumi Maria Pascale
musiche originali Emilio Marinelli