ANDREA ZANGARI | «Shakespeare è come il mondo, o come la vita. Ogni epoca vi trova quello che cerca e quel che vuole vedervi». Così Jan Kott, nelle prime pagine del celebre saggio Shakespeare nostro contemporaneo. Parole che lustrano il mito e proprio per questo lo allontanano in un dorato, impalpabile empireo. Diversamente procede la shakespearologia, che, come ogni “logìa”, si articola nella raccolta e nella verifica di dati particolari, smascherando cliché e facili narrazioni. Farebbe così pensare a uno sguardo scientifico il titolo di Shakespearology, l’ultima fatica del collettivo Sotterraneo, visto al Teatro Biagi D’Antona di Castel Maggiore (Bologna) nell’ambito della disseminata rassegna territoriale di Agorà.

Come da titolo, la ribalta è tutta per il Bardo, cui dà corpo Woody Neri mattatore. Se nell’incredibile ciclo delle interviste impossibili realizzate da Radio Rai negli anni ’70 è mancata la puntata dedicata al drammaturgo inglese, ecco qui servito l’artificio: tutto quello che avremmo voluto sapere su Shakespeare ma che non abbiamo mai avuto la possibilità di chiedere, domandato per voce off da Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa. Un dialogo, dunque, che è in realtà un monologo, o meglio è un dialogo dissimulato con il pubblico, con l’inevitabile proiezione mentale che chiunque sia entrato in un teatro avrà elaborato a partire dai testi del Bardo.
Come ci figuriamo William Shakespeare? Belloccio, ma di una bellezza scavata da notti brave fra scrittura e gin nelle locande dei suburbs, dissimulante gli onori e la ricchezza conquistati? Con immancabili orecchino e gorgiera pseudo-elisabettiana, e nerovestito, di rimando alla melma delle strade intorno al Globe, o al cinerino cielo londinese? Sempre acuto, nostalgico, istrionico. Una sorta di moderna rock star, o forse più una rock star di venti-trenta anni fa, ché le ombreggiature maudit poco si addicono ai tempi di Instagram.
Tale e quale appare in scena Woody Neri, chitarra alla mano, cantando Are You Lonesome Tonight? di Elvis Presley o Desolation Row di Bob Dylan. Rivelando doti canore peraltro notevoli e straordinari cambi di registro fra brani di dolente intimità ed efficaci schemi comici. Cosa aspettarsi, d’altro canto, dallo spettro di un autore che dominava i generi della commedia, della tragedia, del dramma storico? Tanto basta dunque alla scena, che si riduce a quella maschera, uno sgabello e un porta-chitarra, in un allestimento minimo ed essenziale come un confessionale.

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Foto Francesco Niccolai

La necessità da cui tutto muove sembra chiara, ed è affidata alle parole che la stessa voce off di Cirri pronuncia citando Il giovane Holden: «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono».
Ecco tracciata una cornice, una chiosa per lo spettatore: il desiderio di confrontarsi con un’icona, con un demiurgo della lingua teatrale stessa di una compagnia giovane in grado però di porsi fra i più incisivi agitatori della scena contemporanea. Un passaggio obbligato, una prova di maturità nell’unica forma possibile dell’invenzione necromantica (dato che i Sotterraneo non lavorano con testi a monte)?

Indubitabile, in effetti, che ogni teatrante abbia emesso i suoi vagiti con Romeo e Giulietta, o vagheggiato l’adagio amletico in qualche laboratorio adolescenziale. Forse anche perché in epoca moderna la materia shakespeariana si è prestata docilmente alla macchina da presa, con un picco di blockbuster sul finire degli anni ’90: da Romeo + Juliet di Baz Luhrmann con un puberale Di Caprio, a Shakespeare in Love di John Madden, passando per le più sobrie regie di Kenneth Branagh. Il Bardo, dunque, è diventato decisamente pop. E per capirne il motivo è sufficiente ricordare come «All the world’s a stage» appaia una profezia realizzata nella contemporanea società dello spettacolo. Ora, dal pop, è parso naturale ai Sotterraneo far spiccare al drammaturgo un salto ulteriore… nell’Avant-Pop. Termine che appare in ogni articolo, riflessione, comunicato stampa sul lavoro del gruppo fiorentino, a indicare un’arte che disinvoltamente rimesti materiali massmediatici (come i film di cui sopra) per corroborare nuove narrazioni, privilegiatamente digitali, open source, collettive. La finalità: una messa in discussione del circuito di consumo istituzionale dell’arte, dall’anello autore-produttore-consumatore a quello autore-partecipante interattivo.
Disegno in cui si inscrive pienamente l’interattivo e spiazzante Overload, premio UBU 2018 come Miglior Spettacolo; ma che illumina anche Shakespearology, sia pure in maniera meno lampante e strutturale.

Perché, attenzione, la scrittura di Sotterraneo è sempre disseminata di feconde trappole, giochi di specchi tagliati con la punta durissima dell’ironia: se la drammaturgia indica una direzione di senso, è per schiantarne, in fondo, l’autoreferenzialità, per estrofletterne la traiettoria e così mostrare, nella nuova curvatura, un paesaggio inaspettato. Se si delinea una cornice, è per trovarsene puntualmente al di fuori o, più spesso, a cavallo, con un piede di qua e uno di là.
Nel caso di Shakespearology, si perpetra un auto-sabotaggio performativo della stessa forma-dialogo impiegata, proprio secondo il progetto Avant-Pop di cui sopra. Invertire il circuito di consumo dell’arte, in tal caso, significa mettere alla berlina proprio l’impulso voyeuristico, vuol dire criticare la brama, ingannevole secondo questa prospettiva estetica, che ci fa evocare la funzione autoriale come medium necessario per relazionarsi a un’opera. Ebbene, quell’autore non sarebbe comunque conoscibile se non attraverso il gioco della biografia, che è sempre finzione e mai scienza.
Viene alla mente la battuta di Iago: «I am not what I am». Questo solo potrebbe dire, in fondo, un siffatto Shakespeare-personaggio. Ed è questo il discorso che sapientemente Woody Neri e Sotterraneo diluiscono nella scrittura, fingendo, solo per eluderle, pruriginose domande biografiche, tentativi naif di decriptare l’inconoscibile (come i sette anni misteriosi fra il matrimonio a Stratford e la fama londinese).

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Foto Francesco Niccolai

Quello di Sotterraneo non è, dunque, il tentativo di raccontare William Shakespeare, quanto piuttosto di reificare l’immaginario shakespeariano in un possibile William di cui tutto ciò che sappiamo è unicamente che non-è Shakespeare. Come nel caso di quelle inquietanti app che simulano l’avatar di una persona scomparsa, a partire dalla scrittura della stessa: ciò che il dispositivo della finzione non potrà restituire è esattamente l’io-sono del soggetto. Un dato di fatto che può essere indotto dalla banale constatazione alla critica performata di un format (come sempre nel caso di Sotterraneo), fino allo scuotimento della storia del linguaggio e dei costumi del teatro.
Si tratta infine di forme del racconto che esercitano un appeal proprio nella denunciata impossibilità del dialogo “fictionario”. In
Shakespearology, questa piega sub-reale è occasione per mettere il linguaggio teatrale di fronte a se stesso, ai soggetti della scena (la parola, il gesto, il racconto, la maschera), esaltando la dimensione professionale, con le sue incombenze e i suoi regolamenti. Il personaggio-Shakespeare finisce per parlarci del duro lavoro di produrre a stretto giro drammi di ogni genere, che intercettino il favore del pubblico come quello del re. Circostanze decisamente metastoriche.
In tale dinamica la drammaturgia di Sotterraneo rivela la sua raffinatezza: nel corpus shakespeariano vaglia e seleziona alcune strutture compositive, le mette a nudo (qui sì con sapienza analitica) e ri-presenta in forma scherzosa ma puntualmente a servizio della concatenazione scenica. Come nella trafila delle morti tragiche che, spassosamente, Neri sciorina: da Macbeth a Desdemona, da Giulio Cesare ad Ofelia, un montaggio di scene del morire per preparare alla dipartita il già defunto Bardo.

Tutto qui? No, la scrittura di Sotterraneo non rinuncia mai a portare fino in fondo il suo puntuale auto-spiazzamento, a fare della scena un’irrisolvibile eterotopia. Compiuta la messa in crisi della forma scelta, Shakespearology chiude come ha aperto, risale nel segno della più smaccata curiosità che ci riconsegna alla fascinazione, tutta emotiva, per l’uomo dietro i capolavori. Shakespeare-Neri lascia la scena rilanciando quel dubbio più mitologico che storiografico, certamente marginale, ma ineffabilmente toccante: davvero il Bardo non ha mai visto il mare? (rumore di onde, sipario).

 

SHAKESPEAROLOGY

concept e regia Sotterraneo
con Woody Neri
scrittura Daniele Villa
luci Marco Santambrogio
costumi Laura Dondoli
sound design Mattia Tuliozi
tecnica Monica Bosso
produzione Sotterraneo
sostegno Regione Toscana, MiBAC
residenze artistiche 
Centrale Fies_art work space, CapoTrave/Kilowatt, Tram – Attodue, Associazione Teatrale Pistoiese