ANTONIO CRETELLA | Il mito degli “Italiani brava gente” è un tipico topos della narrazione storica del nazifascismo che ha impedito per lungo tempo una chiara e consapevole presa di distanza e un’elaborazione collettiva del disastro umano rappresentato dalla Shoah e, più in generale, dall’abisso etico in cui l’Italia sprofondò nel Ventennio.

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L’immagine degli Italiani in fondo buoni, tutti vittime incoscienti della propaganda o della costrizione, ha offuscato una realtà storica fatta di collaborazionismo attivo, quotidiana delazione, violenza pubblica e privata che trovavano nel fascismo una piena legittimazione più che una causa primaria. Accanto all’eroismo di staffette, partigiani, sabotatori del regime e ai giusti tra le nazioni che rischiarono in prima persona per salvare vite umane, c’era il volto oscuro degli Italiani che trovarono nel regime il riscatto da frustrazioni, sete di potere, per quanto risibile, e la possibilità di ottenere minimi privilegi dalla rovina altrui. Sono gli Italiani che Guicciardini descriveva impietosamente già a cavallo tra ‘400 e ‘500 nelle sue opere storiche come intenti a coltivare il proprio “particulare”, un orizzonte di vantaggio personale che solo incidentalmente coincide, alle volte, con quello collettivo. Ed è su quella propensione culturale alla delazione, al mors tua vita mea, al particulare degli autodefiniti poveri cristi – i cui fallimenti sono sempre imputabili a colpe altrui – che allignano e prosperano i parafascismi odierni, quelli delle “ronde per la sicurezza”, null’altro che squadrismo eversivo, quelli che citofonano a caccia di presunti delinquenti ed espongono sconosciuti alla gogna mediatica senza prova alcuna per una soffiata di un’autoproclamata onestissima cittadina, anche lei, non c’è dubbio, una di quegli Italiani brava gente senza vergogna e senza rimorsi.