MARIA FRANCESCA GERMANO | Siamo alle Vecchie Segherie Mastrototaro, una libreria situata in uno dei cinque bastioni dell’antica cinta muraria di Bisceglie, sul porto della città pugliese. Un tempo segheria, è oggi un incantevole contenitore culturale in cui pagine e storie si impregnano dell’odore di legno di cui i muri sono saturi.
Uno dei luoghi che Carlo Bruni – direttore per il Teatro Pubblico Pugliese della stagione del Teatro Garibaldi di Bisceglie – ha scelto come spazio per recuperare la parola comune, sperimentando, nel progetto Sistema Garibaldi, una nuova modalità di fare arte e teatro nel rispetto dell’identità dei luoghi, in forma inclusiva.
Dalla libreria si accede a un cuore di pietra a grandi archi dalle volte altissime in cui sta per andare in scena La ragione del terrore, uno spettacolo di Koreja con la regia di Salvatore Tramacere su testo di Michele Santeramo. Una favola nera ispirata a un fatto storico avvenuto ad Andria nel 1946 e ripreso nel libro di Luciana Castellina e Milena Agus Guardati dalla mia fame.
Nel marzo del ‘46, nella piazza di Andria, territorio lacerato da povertà e miseria post-belliche, le signorine Porro – due di quattro sorelle – vennero linciate e uccise dalla ferocia di una folla di braccianti straziati dalla fame, ignorati dal resto del Paese e aizzati, nel corso di un comizio rosso, da uno sparo che si disse provenire dal palazzo in cui le sorelle vivevano, dedite al ricamo e alla preghiera; colpevoli di far parte di quella borghesia di proprietari terrieri che chiudeva scuri e occhi su bambini che morivano di stenti e malattie, su famiglie stremate dall’indigenza e sulla rabbia che cresceva. Dopo lo sparo, qualcuno si staccò dalla folla, corse verso il palazzo, ne sfondò il portone. Le sorelle vennero raggiunte poco dopo. Calci, pugni, colpi di baionetta sul viso. Trucidate a sangue fino alla morte.
«Esiste una ragione al terrore provocato, al dolore, alla violenza? E se sì, è condivisibile?»; Santeramo prova a mettere in scena un racconto sull’inevitabilità del male, sui motivi alla base del terrore. Un racconto in cui il carnefice ci rivela la storia dal suo punto di vista, le cause delle sue azioni violente, con le quali lo spettatore è chiamato a confrontarsi.
Una bruma in rarefazione satura la penombra della sala rendendo la sensazione olfattiva di umidità muschiata. Prima del buio, Michele Cipriani, con il busto calcato da un’anacronistica maglia della salute, colloquia con il pubblico in un prologo dall’accento meridionale. «Prima che entra léi io un paio di cóse ve le devo dire».
Ci deve raccontare la storia e noi siamo chiamati a giudicare: «una storia che non ha dentro nemmeno una risata e che non vorrei più raccontare ma il teatro a questo serve: a rifare il passato, a capirlo meglio e a scegliersi le giornate che devono venire»
«Io ho una casa. L’ho fatta io. Io e lei ci viviamo dentro».
Nella fantastica scenografia di Bruno Soriato la casa è uno spazio tridimensionale – come la stanza delle illusioni ottiche di Escher – che sembra ingannare la prospettiva in una tensione dinamica verso il pavimento in discesa, tassellato a scacchiera in bianco e nero. Uno spicchio esagonale, sghembo, in equilibrio nella gravità. Spazio di visioni interiori dei protagonisti, costretti, per tutta la durata dello spettacolo, a tenersi in bilico al centro di un fantasmagorico tagadà, con la tensione di chi, da un momento all’altro, può cadere ed essere inghiottito dalle fauci del pubblico o dai propri terribili inferi.
Lo spazio scenico di Soriato, in cui si innestano, come pareti, i suoni cupi e spettrali di Giorgio Distante, sembra riflettere la carica immaginifica e surreale della drammaturgia di Santeramo in un’ambiguità visiva e sonora in cui i concetti di positivo e negativo, giusto e sbagliato appaiono intercambiabili.
“Lei” è Maria Rosaria Ponzetta, donna silente del protagonista, la cui presenza muta, in una scena che le si stringe addosso, irradia il dolore, lo spasimo, le fitte, l’umiliazione, la ferita di ogni donna violata, imprimendosi, come un marchio a fuoco, sulla pelle dei testimoni presenti.
Michele Cipriani, con enfasi roca, ci conduce nelle trame di una vita misera, buia, feroce; l’infanzia in un tugurio, una grotta umida, la morte di sua sorella per la tosse; acqua ed erba al posto del latte. Freddo, fame. Una madre spenta, rassegnata a essere stuprata dal marito, intenta a raccogliere briciole e a cucinare carne di topo per Natale. E poi l’incontro con “Lei” a sette anni e il loro surreale rapporto sessuale bambino. La violenza del branco sulla ragazzina e ancora anni di miserie e violenze.
«Allora dentro ti viene una cosa nuova che non è più cattiveria ma odio, intorno vedi colpevoli, colpevoli della tua fame e magari non lo sono ma a te non interessa perché loro esistono e tu esisti in due modi diversi»
E poi l’epilogo tragico. Il comizio, il colpo di fucile, l’efferato omicidio della donna reso in scena dal corpo attorale di Ponzetta trascinato e umiliato in una reiterazione universale del male.
«Dopo le grotte, la carne di topo, la violenza, la fame, ho fatto bene, no? Mi sono scelto un nemico e avevo ragione. Se siete onesti, dovete dirlo anche voi. Ho fatto la cosa giusta!».
Non ho provato empatia per l’assassino. Non sono riuscita a farmi sabotare da un manicheo dialogo interiore. Per dirla con Yves Lavandier, non ho percepito il conflitto provato dal protagonista; il racconto ha velato l’ostacolo. Il cattivo. L’indifferente società dell’opulenza. La grotta, lo stufato di topo, il sesso tra bambini, mi hanno catapultato in un mondo altro, lontano, senza farmi spiare il Natale nelle case in cui «il venerdì si mangiava pesce», rendendo il nemico solo l’evocazione di un’ombra sfuggente, non identificabile e giudicabile.
Al contrario, ho avvertito in pelle d’oca il femmineo universale dolore. La miseria delle donne di ieri, di oggi, di sempre, assoggettate al dominio dell’uomo di turno. Il padre, il marito, il branco. La presenza di “Lei” durante tutto il monologo, la sua mimica animale produttrice di stimoli forse inconsci, hanno generato un contagio emozionale distraendomi spesso dal flusso di parole recitate con passione dal Cipriani-protagonista. Lo sguardo profondamente vacuo, la chiusura lenta delle palpebre, le mani sulle ginocchia chiuse e i piedi a triangolo con gli alluci uniti. La manica a pulirsi gli occhi pieni di lacrime. Il dorso della mano sotto il naso gocciolante. Il sorriso con gli occhi semichiusi nella danza attorno al tavolo. L’avambraccio in difesa a schivare violenza come un animale ferito. Gli arti senza peso quando diventa vittima. Le sopracciglia alzate a dilatare occhi increduli davanti al male. Il corpo a farsi piccolo, schiacciato dallo spazio.
Sempre in silenzio. Un Passo Indietro.
LA RAGIONE DEL TERRORE
uno spettacolo Koreja
testo di Michele Santeramo
regia Salvatore Tramacere
con Michele Cipriani e Maria Rosaria Ponzetta
assistente alla regia Giulia Falzea
scene e luci Bruno Soriato
sonorizzazione Giorgio Distante
realizzazione scene Mario Daniele
tecnici Alessandro Cardinale e Mario Daniele
organizzazione Laura Scorrano e Georgia Tramacere
Vecchie Segherie
Bisceglie, 18 gennaio 2020
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