RENZO FRANCABANDERA | Velia Papa è una donna curiosa, un signora dalla corporatura minuta e dall’aspetto mite, di non ostentata ma tangibile eleganza, di gesti più che di oggetti.
Dirige con equilibrio le questioni teatrali nelle Marche da molti anni, con uno sguardo che accoglie e compone. Danza contemporanea e prosa classica, avvicinando giovani realtà ai maestri, sono gli ingredienti che compongono le stagioni di Marche Teatro, uno dei TRIC (Teatro a Rilevante Interesse Culturale) la cui missione è il sostegno e la diffusione della creazione artistica contemporanea. Questo scopo viene perseguito offrendo, ad un nucleo di artisti e compagnie che lavorano stabilmente con l’Ente, un supporto alla produzione nelle sue differenti fasi: dalla ricerca (residenze creative, progetti di formazione) alla realizzazione (supervisione, ricerca di partners) fino alla distribuzione (networking, progetti internazionali).
Il cartellone della stagione del Teatro delle Muse di Ancona, così come la programmazione del Festival Inteatro a Polverigi che dirige da oltre quarant’anni dopo averlo fondato con Roberto Cimetta, riflettono questa sua caratteristica, che si alimenta anche di una curiosità non provinciale e che dall’inizio della sua carriera nutre, alimentando il suo sguardo con progetti e incontri oltreconfine. Per dire: è una donna che venti anni fu fra le fondatrici di DBM Danse Bassin Mediterranée, l’associazione internazionale finanziata dall’Unione Europea, cui aderiscono rappresentanti di istituzioni, teatri ed Enti di formazione e promozione nel settore della danza dei Paesi del bacino del Mediterraneo. Dialoga e incontra altre culture. La trovi a curiosare ad Edimburgo durante il Festival per portare poi in Italia le cose che la convincono di più.
Perchè tutto questo panegirico introduttivo: bah per due ragioni.
La prima risiede nel fatto che la direzione culturale non è un concetto astratto, ma sono concretamente delle persone, operatori che creano e compongono, a partire dalla propria etica e gusto personale, una dinamica collettiva di interessi, educando allo sguardo.
La seconda è che trovandomi ad Ancona al Teatro delle Muse per Lebensraum, nuova produzione della Jakop Ahlbom Company, con questa operatrice dinnanzi a me che mi rivolge una parola non aggressiva, di ascolto cordiale, rifletto su quanto spesso non si conoscano le persone del fare. Ancor di più ci penso entrando il sala e trovando il teatro tutto esaurito per questa data unica che riporta per il secondo anno consecutivo qui nelle Marche questo gruppo di artisti , dopo il successo con il primo lavoro, Horror, presentato nel cartellone della scorsa stagione.
Chi è Jakop Ahlbom, allora?
L’Italia ha conosciuto in maniera più ampia il suo talento grazie all’invito rivoltogli da Antonio Latella nell’edizione 2018 di Biennale Teatro, dove ha potuto presentare i suoi due lavori di maggior successo, gli stessi che poi la Papa ha offerto al suo pubblico nelle due stagioni consecutive, inserendosi, nel caso di Lebensraum in una piccola tournée italiana che arriva anche a Milano al Teatro Menotti in questi giorni.
Nel 2000 inizia a lavorare sulle proprie peculiari opere, quali Viefalt (2006), Lebensraum (2012) e Horror (2014).
Sebbene il lavoro di Ahlbom non sia definito da uno stile specifico, non può non richiamare alla mente l’estetica e lo schema costruttivo dello spazio e del movimento scenico che pratica da alcuni anni Isabela Carrizo con la sua compagnia Peeping Tom o, ad esempio, l’immaginario sicuramente contaminante per l’area culturale dei Paesi Bassi, della danza di Alain Platel, che ha influenzato una intera generazione.
Nel caso di Ahlbom, arriviamo ad una scrittura che gioca sull’irrazionale, crea mondi onirici ai confini del subconscio, unendo elementi derivati dalla farsa, dall’illusionismo, l’acrobazia, la danza, l’assurdismo, la musica, le arti visive, la poesia e la magia, e che spesso trae ispirazione diretta da fonti cinematografiche, cui i rimandi sono continui, come nel caso di Horror. Ma anche nel caso di Lebensraum (spazio vitale), non sono pochi i rimandi al cinema, anzi: fin dall’inizio, con un ritratto di Buster Keaton che campeggia a destra della scena, l’ambiente evocativo rimanda al film muto comico di inizio Novecento, e le gag in cui si producono i due protagonisti della vicenda, rimandano alle coppie comiche del cinema americano, anche perché in una esplosione di fantasia, la loro dimora, oscura e piccola, diventa luogo nel quale i due arrivano a creare macchinari e strumenti per automatizzare in modo surreale la loro vita nella casa, con argani e tiranti che fanno arrivare sale e pepe a tavola, o rimettono a posto l’acqua nel frigo. Come non arrivare, di questo passo, a volere un robot. Magari una donna, che allevi la loro solitudine.
Dal mito di Shelley con Frankenstein, con la costruzione del robot dal sembiante umano, fino a Blade Runner, la costruzione è un continuo gioco di equilibrismo, reale e poetico, fra generi, spazi (anche esterni a questa casa)
La scena è un unico ambiente, un monolocale con carta da parati alle pareti, un mobilio d’antan, e mimetizzati nella carta da parati ci sono anche i due musicisti che eseguono la colonna sonora dal vivo, il duo Alamo Race Track.
Bello il trucco degli attori in scena, affidato a Anabel Urquijo Claveria.
Dal punto di vista attorale la prova è intensa, non di rado acrobatica, come si diceva, costantemente alimentata da uno spirito, in una ispirazione fra circo e film muto.
Dopo una vivace inizio, lo spettacolo, nel suo evolvere drammaturgico rallenta la carica, portata dall’inaspettato, e trova il maggior fuoco attorno alla prova recitativa della donna macchina, una notevolissima Silke Hundertmark.
Il tempo dell’ironia tragicomica cede così il passo al tentativo di una riflessione che forse vorrebbe anche essere filosofica, arrivando a interrogare sul confine della volontà fra uomo e macchina, ma sono spiragli di intellettualità che restano sullo sfondo (per fortuna sotto certi aspetti, purtroppo sotto altri).
È come se la creazione, immaginifica e visivamente potente, sempre alla ricerca di una qualche trovata, di una brillante citazione, di un’uscita di scena inaspettata, e pur nella ampia gradevolezza complessiva, resti un po’ prigioniera di se stessa, del meccanismo e della coerenza interna ad esso, impedendo alla dimensione di pensiero di lasciar spazio ad un turbamento più intenso, di secondo livello, insomma, e che forse in questo codice espressivo arriva solo accettando forse lo spazio dell’errore, dell’imprevisto.
La dimensione acrobatica nella narrazione, con le sue difficoltà ma anche con le rigidità che in un certo senso impone alla drammaturgia, finisce per creare una cornice algida che solca una sorta di distanza con chi osserva.
LEBENSRAUM
regia Jakop Ahlbom
drammaturgia Judith Wendel
con Jakop Ahlbom/Yannick Greweldinger, Silke Hundertmark, Reinier Schimmel, Leonard Lucieer, Ralph Mulder/Empee Holwerda
musica dal vivo degli Alamo Race Track
scene Douwe Hibma, Jakop Ahlbom
luci Yuri Schreuders
tecnici Tom Vollebregt, Allard Vonk e Michel van der Weijden
arredi scenici speciali Rob Hillenbrink/Robs Propshop
trucco Anabel Urquijo Claveria
gestione e vendite Marc Pil
produzione e gestione tournée Sarah Faye van der Ploeg