ILENA AMBROSIO | Gelem, gelem lungone dromensa… L’inno del popolo Rom, eco di passi che si avvicendano sulla via di lunghi viaggi. Una donna tzigana che «decide di trasferirsi in paradiso» e offre un ultimo dono all’unico figlio: un rituale dal sapore antico che faccia sbocciare fiore, talismano, bussola che indichi «la strada della felicità e della fortuna».
Inizia così Il fiore azzurro, prodotto dell’incontro tra teatro di figura e narrazione, scritto e interpretato da Daria Paoletta – Compagnia Burambò – e ospitato in Sala Assoli per la ricca stagione dedicata ai ragazzi da Le Nuvole – Casa del contemporaneo.
Un parallelepipedo di legno con sopra due cubi di diverse dimensioni è la scena per l’attrice e il suo pupazzo, simpatico ragazzino vestito di tutto punto, con scarpe comode da passeggio – perché tanto dovrà camminare – e capelli azzurri (bellissimo esempio dell’artigianato di Raffaele Scarimboli).
Qui inizia il viaggio di Tzigo alla ricerca di felicità e fortuna. Un cammino solitario, anche se «un giovane tzigano non è mai solo. Insieme a lui, nelle sue vene, scorrono generazioni di zingari, che quando non hanno più niente, con quel niente si mettono in cammino!». In spalla, allora, un bagaglio immaginario ma essenziale, l’identità, il lascito di un popolo che dalla notte dei tempi è in cammino con cavalli e carovane, che racconta storie intorno a un fuoco, che – ma lo sapevate? – ha inventato il violino! Di quella identità Tzigo va fiero – «Zingari! Come me: pelle scura, capelli lunghi, occhi profondi…» – e allora via, petto in fuori, testa alta nel suo cammino sulle note folkloriche di una fisarmonica. «Cammina, cammina Tzigo!».
Il suo viaggio sarà un viaggio di formazione ma la formazione necessita di scoperte e le scoperte, si sa, portano spesso con sé delusione e dolore. Il giovane zingaro trova porte chiuse, sguardi indagatori dietro le finestre, scopre il pregiudizio, la diffidenza. Non riesce a spiegarseli ma, come tarli, si annidano dentro quella sua identità, consumandone l’orgoglio: «Ho sbagliato tutto. Se mi facevo chiamare Mario a quest’ora tenevo da mangiare».
Eppure il soffio primigenio, il richiamo del sangue accorrono in aiuto: il fiore azzurro della madre si fa davvero bussola e, sospinto dal vento, conduce Tzigo lungo il cammino che è segnato nel suo destino. Lo porta all’incontro con una lupa e una volpe i cui doni saranno armi bianche nelle prove da affrontare al cospetto della temibile Muma Padurii – entusiasmante la Paoletta nell’interpretare/descrivere la strega. Il premio tanto agognato, quello che Tzigo pensa, potrà dargli felicità e fortuna è un cappello che rende invisibili: cancellazione del suo essere «l’unico pupazzo in questa stanza… la minoranza», incantesimo che celi una identità ora rigettata, rifiutata.
«Quando metterai il cappello – avverte la strega – farai… puff!». Proprio realizzando questo avviene il cambiamento, il momento della formazione; di fronte all’irreversibilità della scelta, l’essere vero e profondo di Tzigo si ribella al silenzio e alla sparizione: «Io non voglio diventare invisibile, io voglio essere così come sono, io voglio essere visto. Adesso lo so come deve andare la mia storia!».
Il fiore azzurro è tratto da un antico racconto orale zingaro che D. Paoletta ha rielaborato in un testo limpido e fluente, che sa pizzicare senza patetismo le corde dell’emotività ma anche concedersi l’autoironia di simpatiche digressioni meta-treatrali – «Quando Tzigo entrò gli si parò davanti un essere non essere, questo è il problema… Un giorno capirete la citazione se continuerete ad andare a teatro».
Un lavoro che soprattutto sa coniugare narrazione e teatro di figura in una sintesi perfetta. La parola raccontata incontra con fluidità, in ritmo sempre calibrato e mai faticoso, la rappresentazione, che a sua volta unisce le azioni dell’interprete e quelle del pupazzo. I due agiscono sulla scena come fossero davvero distinti eppure con una com-passione che ha nella tenerezza la sua cifra più ammaliante: madre e figlio, amica e amico, guida e discepolo, questi personaggi vivono in una relazione intensa che si materializza in gesti di affetto quanto mai umani – toccanti le carezze di Tzigo sul viso di Daria. Il racconto si anima di questi gesti, dello spostamento dei cubi che definiscono variamente il pur semplice e ridotto spazio; spazio in total black ma reso poliedrico da un’illuminazione anch’essa narrante, puntuale nel sottolineare le tinte emotive della vicenda.
Ma soprattutto il racconto si anima del coinvolgimento del giovane pubblico. Alquanto indisciplinato e dispettoso – a voler essere diplomatici – nella replica cui abbiamo assistito. Ha fatto fatica, Daria Paoletta a iniziare, ha fatto fatica a continuare, interrotta da brusii, risatine e dall’accenno di un insulto. Ma con grazia ed elegante professionalità è riuscita, battuta dopo battuta, ad ammaliare e conquistarsi l’attenzione, fino a portare nel racconto le voci dei bambini: teatro 1 – maleducazione 0.
Ed è stata significativa, questa vittoria. Di per sé, ma ancora di più nella misura in cui ciò che sta tra le righe, tra le battute e i gesti sapienti che compongono Il fiore azzurro è prima di tutto una fondamentale lezione sulle cose della vita, oggi più che mai necessaria. Una lezione su ciò che è l’identità e su cosa significa custodirla; su come la targa di “diverso” possa metterla in crisi; ancora, su come la minoranza e la maggioranza siano concetti relativi: «Qui e adesso, non ci sono altri pupazzi, e io – spiega Daria a Tzigo – con loro, sono la maggioranza. Ma stasera, quando torniamo a casa, io ho una stanza più grande di questa dove sono tutti come te: pupazzi, marionette, burattini, stoffe, oggetti, e io divento la minoranza e tu la maggioranza».
E dunque si spera che, in quell’ora lontano dai banchi, i giovani spettatori – quelli entusiasti, che alla fine hanno inondato Daria di domande, che hanno voluto conoscere Tzigo ma ancora di più quelli rimasti ostili e scettici – abbiano, più che imparato, fatto esperienza di un modo diverso di leggere il mondo, alternativo a quello che procede per categorizzazioni, etichette, schemi; un modo che usa occhi liberi da filtri, mente aperta, cuore disponibile e gentile.
Magari cosi troveranno, come Tzigo, la loro strada e la la loro storia.
IL FIORE AZZURRO
teatro di figura e narrazione
di e con Daria Paoletta
consulenza artistica Nicola Masciullo
pupazzo Raffaele Scarimboli
Sala Assoli, Napoli
8 gennaio 2020