ILENA AMBROSIO | Due uomini, sconosciuti l’uno all’altro, si ritrovano in uno spazio non definito; non si sa da dove vengano né come e se usciranno da quel luogo. Un luogo che è un «limbo», dell’animo prima di tutto, dove ritrovarsi faccia a faccia con sé stessi, con il senso della propria esistenza o con la sua assoluta mancanza; un luogo dove interrogarsi e interrogare l’altro, svelandosi poco a poco. Un luogo della mente dove praticare il pensiero.
In un tal luogo Michele Santeramo colloca lo svolgersi di La resa dei conti – già raccontato su PAC da Elena Scolari e Arianna Lomolino – atto unico messo in scena con la regia di Peppino Mazzotta e interpretato da Daniele Russo e Andrea Di Casa e visto al Piccolo Bellini. Questo fare i conti corrisponde a uno svisceramento di temi essenziali dell’esistenza – etica, identità, libero arbitrio – rivelandosi ulteriore prova di una scrittura drammaturgica che sempre si innesta al seme della riflessione filosofica. Una scrittura limpida, accogliente, nel suo essere scevra da qualsivoglia ermetismo, ma anche incalzante, nel suo porre, con spontaneità e insieme fermezza, domande, questioni, interrogativi.
È un drammaturgo/filosofo Santeramo nel quale, oltre al conclamato valore di scrittore, la profondità di pensiero si sposa con una sensibilità modesta – “secondo me… io penso” ci tiene sempre a sottolineare – e aperta al confronto, al dialogo.
La resa dei conti è decisamente un lavoro filosofico del quale mi è sembrato arrivi solo in un secondo momento l’aspetto drammatico; ciò che impatta per primo sullo spettatore è il testo stesso. Mi interessava sapere se c’è stata una causa scatenante che ti ha portato a questo ragionamento così profondamente filosofico sull’essere umano, l’identità, la colpa, il libero arbitrio.
È difficile ricordare una causa particolare perché questo è un tema che mi è molto caro e che da tempo cerco di declinare variamente nei miei testi. È una questione che sento appartenere a tanti e che io stesso porto addosso; si tratta del sentire che a volte questa nostra vita, più che essere la bellezza di viverla, diventa una specie di condanna, alla quale tutti cerchiamo solo di porre rimedio quotidianamente, come se non si potesse mai cambiar nulla di concreto. Siamo tutti un po’ rassegnati a questo. Però ogni volta che mi capita di chiedere a qualcuno se sarebbe disposto a cambiare vita, moltissimi mi rispondono di sì. Il problema è che per farlo bisogna stravolgere tutto, cambiare case, lasciare il proprio paese. E dentro di noi sappiamo che, alla fine, questo cambiamento radicale non lo faremo mai…
Perché il noto, per quanto possa essere doloroso, è sempre più rassicurante dell’ignoto.
Esattamente, anche se ti far star male. Allora ho immaginato di mettere uno di fronte all’altro due personaggi specchio di questo sentimento comune, che è mio e di molti; due personaggi di cui uno ha definitivamente deciso di cambiare tutto, anche rischiando di sconfinare nella follia pura.
Parli del personaggio di Andrea di Casa, un ex prete che, deluso di sé stesso, ha deciso di diventare Gesù! Diciamo che non si è accontento del primo che capitava…
Per nulla! Se uno decide di cambiare tutto, tanto vale…
Proprio questo meccanismo a crederci davvero, per un attimo, di riuscirci ha messo in moto le riflessioni dello spettacolo.
Con la folle scelta di questo personaggio entra in ballo la figura di Cristo, si inizia a parlare di colpa, di fede, di libero arbitrio. Ma La resa dei conti non parla di religione. Mi è sembrato che Gesù entri in scena quasi come “special guest”, non per avviare una riflessione religiosa ma piuttosto una disquisizione razionale su quei temi fondamentali per la dottrina cristiana. Razionalità e forte laicità, quindi.
È proprio quello che volevo si percepisse. Tirare in ballo questi temi significava per me anche un po’ slegarli da quella che per noi è esclusivamente una morale cattolica. Sono questioni che tratta anche la Chiesa ma, prima di tutto, sono questioni umane, dalle quali ci sentiamo a riparo come se non appartenessero al nostro quotidiano e dovessimo affrontarle solo il giorno di Natale a Messa. Percepiamo quei temi come altro da noi e invece io penso che siano i temi fondativi, sui quali dovremmo fermarci a riflettere più spesso. Allora ho scelto Gesù proprio perché “contenitore” di tutto questo, come rappresentate, vicino alla percezione emotiva dello spettatore, di qualcosa che noi sentiamo appartenere a noi stessi ma quotidianamente releghiamo a una sfera limitata e altra.
Non è un caso, allora, che i picchi di ironia siano proprio nei momenti in cui “si manifesta” Gesù. L’ironia assolve al suo compito di creare distacco per evitare il rischio di pensare che si stia parlando proprio di lui. La regia in questo ha assecondato molto bene il testo.
Questo distacco era fondamentale. E ci tengo davvero tanto a dire che c’è stata una bellissima collaborazione con Peppino Mazzotta: abbiamo discusso del mio testo e io ho accolto con piacere il suo invito a intervenire su alcune parti. A un certo punto ci siamo resi conto che si trattava di scandagliare pensieri ed emozioni che erano anche e soprattutto nostri e quindi abbiamo lavorato insieme, in una riflessione condivisa anche con Andrea e Daniele. Personalmente ogni spunto di riflessione proveniente da chi deve mettere in scena un mio testo diventa sempre ulteriore stimolo.
Hai nominato gli interpreti. I loro personaggi hanno un’evoluzione lineare nella quale la loro identità si svela a poco poco. E proprio il tema dell’identità è un altro leitmotiv del testo, più nello specifico lo è l’idea che la nostra identità si definisca, diventi vera, solo nel momento in cui sono gli altri a riconoscerla, legittimandola.
Noi tendiamo a credere a noi stessi solo quando gli altri ci vedono compiuti. Proprio stamattina leggevo una passaggio dei Taccuini di Camus nel quale sostiene che, guardando la vita degli altri, la percepiamo come un intero mentre la nostra la vediamo come spezzettata. I personaggi di La resa dei conti dicono più o meno questo: dicono che abbiamo bisogno che gli altri ci riconoscano così da darci l’interezza che noi non cogliamo in noi stessi. E invece dovremmo cercare di bloccare questo meccanismo, di considerarci interi o quanto meno di accettare che nessuno lo è.
Tra i due il personaggio di Daniele è quello più radicalmente pessimista rispetto alla natura dell’uomo: «l’uomo è uno schifo, non è fatto per essere libero». Avevamo affrontato questo aspetto anche parlando del tuo Tito Andronico nel quale l’uomo era davvero homini lupus. È un tema, insieme antropologico e politico, che attraversa la filosofia da sempre ma che viviamo e osserviamo quanto mai oggi. A volte capita di pensare che la libertà, la democrazia siano cose che noi non meritiamo.
Stavo pensando esattamente alla stessa cosa e sono d’accordissimo con te. La democrazia è qualcosa che facciamo non che meritiamo. Il personaggio di Daniele porta proprio questi temi che, come dicevi, sono tra i miei ricorrenti. Io penso ci sia un portato di violenza nella nostra vita che è naturale e appartiene a tutti. Ciò che ce ne fa allontanare sono la civiltà e la cultura perché ci rendono umani, esseri sociali, staccandoci da quella tensione animale. Ma noi viviamo in un tempo in cui la cultura, nella sua accezione più vasta, è considerata sempre meno un valore; così a venire fuori sono soprattutto gli istinti, e gli istinti non sono belli, non sono piacevoli. Il personaggio di Daniele testimonia proprio questo e può farlo perché se ne è convinto sulla sua pelle, avendo avuto prova dei suoi istinti peggiori. Il mio tentativo è quello di affrontare temi anche molto grandi ma di fare in modo che a farlo siano personaggi che li hanno vissuti sulla loro pelle traendo conclusioni che non sono assolute ma elaborate con l’esperienza. Daniele dice quello che dice perché l’ha vissuto e se l’è dovuto spiegare.
La riflessione di La resa dei conti, dunque, porge temi che sono sustanziali alla nostra esistenza ma detti e agiti da personaggi che potrebbero essere ciascuno di noi. Anche il personaggio di Andrea vuole trasformarsi in Gesù come reazione a un suo vissuto particolare e traumatico. La sua posizione è comunque un risultato di questo.
È il risultato della sua personale disperazione. Il tentativo – perché sempre di tentativi si parla almeno per me – è di fare di tutti questi temi concretezza, di metterli nelle vite delle persone per affermare che appartengono alla nostra quotidianità, che sono cose che ci riguardano ogni giorni.
Penso allora sia prevedibile la risposta che mi darai ora. Il teatro può e, se può, deve affrontare questi temi? Ha senso farlo per cercare di influire sulle scelte di chi guarda e ascolta? Hai, insomma, la speranza che, chiuso il sipario, qualcuno porti dentro di sé il germe di quella riflessione e ne faccia qualcosa nella propria vita?
Assolutamente sì. Io penso che il teatro, tra le sue mille funzioni, abbia anche questa, soprattutto adesso. Perché la gente va ancora a teatro? Se volessimo l’effetto speciale andremmo a vedere 007. Al cinema vediamo l’inondazione, l’acqua che arriva, la gente che scappa; a teatro invece potremmo parlare degli effetti di un’inondazione sulla singola persona che l’ha subita. Il teatro è un portatore sano di umanità, di sentimenti umani che noi possiamo scandagliare fino a trovare qualcosa che ci appartiene ma che magari non riconosciamo più. Da questo punto di vista è immortale e indispensabile perché ci mette di fronte a ciò che sappiamo ma non riusciamo a dire più; qualcosa che corrisponde a noi stessi, che siamo il sentimento più profondo.
Allora sì, mi auguro e spero che uno spettacolo come questo continui a lavorare più o meno consapevolmente dentro lo spettatore, che gli lascia qualcosa che in qualche modo lo abbia riguardato. È questa, penso, l’assoluta necessità del teatro: far parte di quel mondo di civiltà che ci allontana dall’istinto primordiale della violenza.
Noi che siamo facitori di teatro dobbiamo esserne consapevoli e credere a questa necessità e a questa responsabilità.