RITA CIRRINCIONE | Con uno sguardo rivolto alla drammaturgia contemporanea nazionale più ampio rispetto al passato, riparte Scena Nostra allo Spazio Franco ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo.
Tra i primi spettacoli in programma, Patres della compagnia calabrese Scenari Visibili, scritto e diretto da Saverio Tavano e My place della compagnia lombarda Qui e Ora Residenza Teatrale con la regia di Silvia Gribaudi. Entrambi in anteprima regionale, indagano due temi-cardine della contemporaneità: l’evaporazione del padre (secondo la felice espressione di Lacan) a partire dall’archetipo del padre assente, Ulisse, e una riflessione “danzata” sul corpo femminile inteso come spazio interno/casa.
PATRES
In un ambiente improntato alla precarietà e all’inconsistenza, tra fili di panni stesi e bacinelle di plastica azzurra, in una quotidianità antieroica e casalinga, un Telemaco attende il ritorno del padre. Scruta l’orizzonte protendendo le orecchie al rumore del mare: il suo sguardo è vuoto e sperduto, l’eloquio esitante, la sua conoscenza del mondo non va oltre ciò che la breve corda alla caviglia gli consente di raggiungere. Ma, quasi si fossero invertiti i ruoli generazionali, la sua è una cecità veggente – «Più chiudo gli occhi e meglio gli occhi vedono» – capace di guardare oltre, di porsi domande sul colore dell’orizzonte, sul futuro di una terra e di un mare avvelenati e oltraggiati; una chiaroveggenza che, come quella della “generazione Greta”, sembra prodigiosamente scaturita dalla stoltezza dei padri.
Quando torna, questo Ulisse prova a fare il padre ma lo fa in un modo impacciato e superficiale, in un accudimento sommario e sbrigativo che non si evolve in cura. Un padre che, tenendo legato il figlio alla corda – in un’interpretazione riduttiva e reificata della valenza affettiva di legame e del concetto simbolico di limite – ha già abdicato al suo ruolo.
Incapace di incarnare la legge e di trasmettere al figlio un senso plausibile di vita, stabilisce con lui un rapporto simmetrico di complicità cameratesca: al suo arrivo lo coinvolge in un’esuberante danza balcanica e, in una scena squallida e commovente, gli mostra goffamente come si prende una donna, o meglio, un surrogato di donna, una bambola di plastica di pessima qualità, messa a stendere insieme ai miseri panni e gonfiabile al bisogno.
L’insofferenza verso il suo ruolo richiama per contrasto la solida e incrollabile assunzione della funzione genitoriale di una volta, quando i padri si prendevano la responsabilità di fare i padri e permettevano ai figli di fare i figli, di sperimentare il limite e soprattutto di ribellarvisi. Qui i ruoli si invertono: i padri fuggono in un altrove deresponsabilizzante, i figli restano a farsi domande su un futuro oscuro e incerto.
In una visione tutta di segno maschile, nessuna Penelope attende, nessuna madre dà un senso all’assenza del padre.
L’uso del dialetto calabrese – lingua arcaica aspra e dolce – che accomuna il giovane Telemaco al padre, rimanda finalmente a un’eredità, a un passato di cura in cui quel linguaggio è stato trasmesso e al nutrimento affettivo che insieme ha veicolato.
Il volto neorealista, scavato e intenso, di Dario Natale incarna un credibile Ulisse dei giorni nostri, inquieto e irresponsabile; Gianluca Vetromillo, con la sua fisicità fragile e incerta, un Telemaco sperduto e al tempo stesso determinato.
MY PLACE
In una scena quasi nuda, tre donne – corpi maturi e imperfetti, dischetti di ovatta sugli occhi, mise di mutande e reggiseno spaiati – si prendono un momento di relax: la funzione cognitiva è messa in standby, l’eloquio regredito, quasi afasico, cede il passo al linguaggio del corpo.
Una successione di quadri non sempre legati, tra coreografie su brani dall’effetto assicurato come Think di Aretha Frankilin o Mio cuore di Rita Pavone e un repertorio di situazioni di ordinaria quotidianità “danzate” con autoironia e con piglio clownesco, compone il profilo antropologico di donne ordinarie non più giovanissime, quasi creature almodovariane sull’orlo di una crisi nervosa, alle prese con grandi e piccoli problemi quotidiani da risolvere – dal mutuo da pagare alla cellulite da arginare; dal rapporto complicato con l’altro sesso, alla ricrescita da contrastare. A sostenerle nelle cadute e nei cedimenti è quello speciale legame di mutuo aiuto tutto femminile che è il rapporto di sorellanza, elemento post-sessantottino che, insieme ai temi dell’orgoglio femminile o dell’autogestione del corpo, riecheggia nel corso dello spettacolo.
Le performer in scena sono solo tre – le strepitose Francesca Albanese, Silvia Baldini e Laura Valli – ma il gioco di ombre proiettate (eccetto pochi oggetti scenici il video-proiettore è l’unico elemento sul palcoscenico) che le ingigantisce rendendole oscure e incombenti e le immagini-video dai colori sbiaditi da vecchia pellicola in cui appaiono in un altrove iconico e pop dal sapore anni ottanta, moltiplicano e intricano la loro presenza in scena.
Ben presto i loro corpi perdono i contorni del corpo reale e si trasfigurano in un corpo immaginario, un corpo svincolato da schemi e da imperativi estetici, un corpo liberato che a dispetto di età, mole e imperfezioni, danza, gioca e si diverte modificando, man mano che lo spettacolo va avanti, anche una certo sconcerto iniziale dello spettatore.
My place prosegue l’indagine sul corpo femminile, vivo e autentico, che Silvia Gribaudi da anni coraggiosamente conduce in contrapposizione a un’idea di bellezza patinata e omologata e a una cultura in cui il corpo della donna, in una sorta di dittatura estetica, è visto come qualcosa di decorativo, funzionale al piacere maschile.
La ricordiamo in alcune sue azioni performative in luoghi non convenzionali come supermercati, strade, piazze, in cui l’esposizione del corpo allo sguardo degli altri, per successive sottrazioni di fattori protettivi – fuori dalla tutela di uno spazio scenico codificato, di precise partiture coreografiche, di scenografie, di luci e in presenza di un pubblico occasionale e distratto – è spinta al massimo: un corpo solo con la propria potenza simbolica.
Il corpo femminile che emerge dalla poetica della coreografa e performer torinese – al di là della naturale e non trascurabile funzione di contenitore di vite e della mistica della maternità – è un corpo con una propria stratificazione di senso, vissuto e segnato dalla propria storia – quello che Merleau-Ponty chiama corpo-me – e come tale corpo totale che si apre alla relazione con il mondo.
In un corpo siffatto, luogo primario protetto dal recinto simbolico dell’Io-pelle all’interno del quale sentirsi a casa, diventano davvero risibili inestetismi e smagliature: il corpo si prende tutto il suo potere, la sua libertà, la sua bellezza.
PATRES
di Saverio Tavano
con Dario Natale e Gianluca Vetromilo
regia Saverio Tavano
foto di scena Gianfranco Ferraro, Angelo Maggio, Pasquale Cimino
video Andrea Aragona
produzione Scenari Visibili
con il supporto della Regione Calabria, sistema delle Residenze Teatrali Calabresi.
Premio Pradella 2018 Teatro dei Filodrammatici Milano
Miglior spettacolo Festival Inventaria Teatro dell’Orologio Roma 2014
Premio contro le mafie del MEI 2014 Faenza
Secondo premio al Festival Teatrale di Resistenza Museo Cervi/Gattatico RE
MY PLACE
un progetto di Qui e Ora Residenza Teatrale
ricerca materiali Francesca Albanese, Silvia Baldini, Silvia Gribaudi, Laura Valli
regia Silvia Gribaudi
assistente alla regia Roberto Riseri
con Francesca Albanese, Silvia Baldini e Laura Valli
immagini visive Silvia Gribaudi
disegno luci Silvia Gribaudi e Domenico Cicchetti
technical care Paolo Tizianel
foto Michela Di Savino
residenze La Piccionaia (Vicenza) | L’arboreto – Teatro Dimora (Mondaino RN)
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