GIANLUCA IOVINE | Ulay nasce nella Solingen ferita di fine 1943 come Frank Uwe Laysiepen. Il padre, gerarca nazista, gli muore precocemente, e vive gli stenti di tanti orfani di guerra. Il dolore per il Muro di Berlino gli fa abiurare nome e patria, in un percorso identitario e artistico puro e rigoroso. Lascia moglie e figlio per il gruppo anarchico di Provo ad Amsterdam. Torna in Germania alla Kölner Werkschulen con Jurgen Klauke, ma snobba il percorso accademico per sperimentare con la Polaroid. Fotografa dal vivo ogni performance artistica su identità sessuale e personale. Del 1972 sono gli autoritratti in cui si destruttura in più frames, mentre Renais Sense del 1974 lo fa scoprire da Wies Smals e Mia Visser. È così tra i cofondatori della De Appel Foundation di Amsterdam.
Qui documenta in fotogrammi trucco e vestizione della propria identità femminile. Ogni convenzione fotografica è scardinata, e la macchina ne esce sminuita, incapace di offrire altro se non frammenti del visibile, il maschile è parte dell’unità platonica, come afferma nella serie S’He, firmata PA-ULA-Y in simbiosi performativa con la compagna del tempo Paula Françoise Piso. Fototot nel 1976 interpreta il possibile omicidio del sé: il visitatore è parte di una Photo Death dove bianco, materiale fotosensibile, flash, fondano una dimensione nella quale lo scatto annulla l’identità del soggetto, piuttosto che fissarla; chiunque, artista compreso, può impossessarsene. Ulay anticipa smarrimento, replicabilità, omologazione. Sempre nel 1976 l’artista tedesco esprime al meglio la vocazione sociale in There is a Criminal Touch to Art. Qui il luogo è la performance: sottrae alla Neue Nationalgalerie di Berlino Der Arme Poet di Carl Spitzweg, che riappare ricontestualizzato a casa di immigrati turchi. Filmato e fotografato, il gesto è un potente scandalo visivo, tra disprezzo per l’ideologia paterna -il quadro era del pittore amato dal Fuhrer- e critica alle politiche sull’immigrazione.
A trentatré anni esatti Ulay conosce ad Amsterdam l’artista performer Marina Abramovic, stesso giorno di nascita. Profonda e burrascosa l’intesa artistica e sentimentale, che in dodici anni indagherà la complessa relazione femminile – maschile, nei Relation Works 1976-1988. Nel manifesto di Art Vital la coppia vuole un’arte di movimento e vitalità. Incontra persone, in un gioco di specchi che dà credibilità alla performance, nell’interazione con un pubblico imprevedibile. Arte vita e psiche si comprimono nello spazio viaggiante di un vecchio Citroen della Gendarmerie. Di incomunicabilità e prevaricazione narrano le riprese video di Liegi e Amsterdam nella performance urlata di AAA-AAA: l’uguaglianza tra i sessi è instabile, continuo il tentativo di superarsi. Relation in Time a Bologna propone silenzi fisici, e i due artisti uniti per i capelli nell’utopia della terza entità sessuale. Breathing in, Breathing out sfiora la morte, coi respiri andati a vuoto, nella necessità di uccidersi artisticamente per fondersi. Bologna, giugno 1977. Abramovic e Ulay vengono interrotti dalla polizia. La performance della porta vivente è un’oscenità, ma per chi varca lo stretto spazio dei due corpi nudi è scelta di un attimo, vero scandalo vivente.
Rest Energy del 1980 esplora la caducità della vita in 4’ e 20’’ di accelerazione cardiaca sotto la minaccia di una freccia.
Sono gli anni di Nightsea Crossing Conjunction: Ulay e la Abramović usano privazione fisica e silenzio per la condizione meditativa, trasformandosi in paesaggio immobile, vivente. Modus Vivendi descrive in un’ora l’essere umano in quattro posizioni. Il movimento testimonia la scelta, nelle gigantesche stampe Polaroid. Dodici anni di arte e vita comune sfumano all’esaurirsi della vena creativa, nei sinfonici novanta giorni di The Lovers: The Wall Walk in China, nei quali Abramovic e Ulay partono dagli antipodi e attraversando la Grande muraglia Cinese, si dicono addio. La separazione artistica scatena una battaglia legale. Ulay la vince ma è solo, e torna ai fotoreportage, allo studio, a sperimentare su grande formato con Fotogrammi e Polagrammi su emarginazione e nazionalismo. Nei primi anni Novanta Ulay è un’impronta sfocata su carta Polaroid, ormai parte della macchina. La cattedra di Karlsruhe, e l’ambientalismo di Earth Water Catalogue aprono la riflessione su valore e bellezza dell’acqua, misura della vita. Ulay è ora a Lubiana. È il 2010, e durante The Artist is Present, Ulay siede in un minuto di silenziosa commozione di fronte alla Abramovic, narrandole una vita in uno sguardo.
Il cancro scoperto nel 2009 diventa Project Cancer, regia di Damjan Kozole, reportage in soggettiva del 2011 su luoghi e persone della vita. Rigore e coerenza documentaristici, raccontano tempo, affetti, perdita. L’identità rincorsa e raggiunta è infine destrutturata, un attimo prima del nulla.
Nella critica all’omologazione di Anagrammatic Bodies del 2015, Ulay smonta se stesso, ricreandosi in frammenti fotografici di parti femminili.
L’ultimo lascito di una ricerca artistica coerente e asciutta conclusa nel sole di marzo.